Un incontro caldo in tutti i sensi – caldo il pubblico, caldo il tema, caldissima la sala – quello che ha avuto luogo stasera al Piccolo Teatro di Giulietta, a Verona. Assente Cesare De Michelis, dialogavano con sincera passione Emanuele Trevi e Vittorino Andreoli. L’occasione era ghiotta: la nuova edizione, firmata Neri Pozza, di uno dei capisaldi della letteratura italiana contemporanea, Il male oscuro di Giuseppe Berto. Giuseppe Russo, direttore editoriale, ha esordito spiegando le ragioni di un progetto ambizioso: compito della letteratura è infatti quello di portare il lettore davanti all'oscuro, senza dargli facili risposte. Proprio per questo il romanzo di Berto merita di entrare nel canone del secondo Novecento, e a questo scopo Neri Pozza intende ristampare l'intera opera dell’autore per darle la visibilità che merita: è quasi doveroso riproporre testi dotati di uno “stile psicoanalitico” degno di rilevanza, capace di coinvolgere e attrarre irresistibilmente anche, o forse soprattutto, il pubblico contemporaneo.
Lo dimostra immediatamente la lettura di Paolo Valerio, attore e direttore artistico del Teatro Stabile di Verona, che immerso nella penombra, ripropone al pubblico i dilemmi del protagonista del romanzo bertiano nell’affrontare la seduta di psicanalisi: tenere o togliere le scarpe, innanzitutto? Berto è, come lo definisce Emanuele Trevi, un “orologiaio” che crea un dispositivo perfetto, che ti trascina immediatamente al centro del meccanismo narrativo, sull’onda di un fluire perfetto di ingranaggi.
Per Vittorino Andreoli Il male oscuro costituisce una "cartella clinica letteraria", in cui i sintomi sono inseriti "dentro all'uomo tutto intero". Berto rompe un tabù, quello di parlare di sé come un malato (a differenza che nella Coscienza di Zeno non c'è una mediazione nell'esposizione della propria patologia). Il malato riesce a fare della malattia un’opera d'arte. La modernità dell'opera risiede appunto nell'intuizione che non è più possibile distinguere la malattia mentale dalla vita dell'individuo: "Il disturbo non è altro rispetto alla tua vita, ma è parte della tua vita, e proprio perché è parte di te da questo possono derivare anche cose positive". Andreoli cita l’esempio di Van Gogh, che è schizofrenico e che produce le sue opere proprio perché schizofrenico: la sua arte non è nonostante la malattia, ma espressione della malattia: "La malattia è diventata vita, non solo spettro della morte". Non è possibile vero umanesimo senza dolore, conclude.
Subentra Trevi, carismatico affabulatore come di consueto. Il suo è un approccio non emotivo, ma critico-letterario, con specifico e dettagliato riferimento ai modelli di Berto, a partire dal titolo, "rubato" alla Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, fino all'ovvio riferimento a Zeno Cosini. Differenza de Il male oscuro rispetto all’illustre precedente è che Zeno può permettersi di scrivere con ironia, dalla compiaciuta prospettiva della guarigione raggiunta, o quantomeno della liberazione; per Svevo, autore ancora "classico", la nevrosi è un argomento, un tema come un altro. Berto parla invece calato in un eterno presente, in una prospettiva dall'interno. Il modello non è più romanzesco, ma teatrale: l'autore si colloca al centro di un palco, non ha accesso a una prospettiva distaccata. Il modello è piuttosto Samuel Beckett. Il romanzo di Berto è accessibile ancora oggi perché l'incapacità di esistere del protagonista è più familiare al lettore odierno che a quello coevo all'opera. Il male oscuro non può dunque, costitutivamente, essere definito classico, perché il classico prevede un punto d'approdo (l'immagine utilizzata è quella del naufrago “uscito fuor dal pelago a la riva”). Per Berto non c'è approdo, e questa è la premessa alla narrazione.
Trevi è affascinato da Andreoli, continua a interagire con lui, testando le sue capacità analitiche e chiedendogli di applicarle al caso-Berto. Abbiamo così un ritratto psicoanalitico dell’autore-protagonista. Le parole chiave sono: angoscia, sessualità, fobia, ossessività. Con una specificazione: il "male oscuro" oggi è la depressione, la quale tuttavia non ha niente a che vedere col male di Berto, affetto invece da una nevrosi fobico-ossessiva.
Un incontro denso di contenuti e appagante per il pubblico si conclude dopo un’ora e mezza col sorriso, quando lo psichiatra ricorda il finale dell’opera: nel momento in cui viene dichiarato guarito, a Berto inizia ad andare tutto male. Ne deriva, inevitabilmente, una constatazione pragmatica relativa a quello che viene definito, non senza una certa soddisfazione (da parte di Andreoli che cita più che di Berto che scrive) un “Superio coglione”. La guarigione del protagonista, se di guarigione si può parlare, non coincide con la dichiarazione del medico, ma con la sua fuga dalla città, con la sua evasione; è accattivante quanto onesta la considerazione finale: la guarigione va verificata e testata nel mondo reale, altrimenti la psicanalisi resta parola vuota. Sorridendo, Andreoli ci congeda: "Io amo più i matti dei normali, ma sono sicuro che di normali ce ne sono pochissimi".
Carolina Pernigo
Social Network