Il cuore degli uomini: il ritorno al romanzo dell'autore di Shotgun Lovesongs

Il cuore degli uomini
di Nickolas Butler,
Marsilio, 2017

Traduzione di Claudia Durastanti

pp. 416
€ 19


Adesso sai come è facile cadere. Succede tutti i giorni. È come nascere e morire. Le persone si innamorano. Le persone smettono di amarsi. Non è colpa di nessuno.

Nickolas Butler è senza dubbio un narratore di talento. Scelgo non a caso la parola “narratore” e non romanziere, perché Butler è prima di tutto un autore di short stories, alcune davvero meritevoli, che “incidentalmente” ha scritto anche due romanzi. E due romanzi molto belli. Personalmente ho conosciuto lo scrittore americano con il primo, bellissimo e struggente romanzo, Shotgun Lovesongs, edito da Marsilio nel 2014 e su cui ho avuto anche il piacere di dialogare direttamente con l'autore: storia di uomini ed amicizia, di addii e ritorni, tra sogni e cadute, sentimenti a cui è difficile dare un nome, vecchi rancori e legami che resistono alle difficoltà, alla vita che si mette in mezzo. La vita semplice, quella che negli ultimi anni sembra affascinarci sempre di più, e, straordinario, lo scenario in cui la vicenda si svolge: gli spazi infiniti del Wisconsin, quella natura bellissima e crudele, i tramonti che bruciano il cielo sopra l’immaginaria cittadina di Little Wing. La narrazione diventava quasi poesia, la storia palpitante di vita, colori, sentimenti.
C’erano grandi aspettative, quindi, intorno a questo secondo romanzo di Butler, non tutte pienamente soddisfatte: eppure, nonostante cadute e difetti che non è sempre facile ignorare, Il cuore degli uomini conferma il talento di un autore abilissimo nel raccontare la vita intima degli uomini, i sogni semplici, i legami che qualche volta resistono a tutto. La narrazione più fredda rispetto al primo, i protagonisti con cui è difficile provare reale empatia – troppo deboli o al contrario troppo perfetti – , la sovrabbondanza di tematiche e spunti e alcune vicende e dialoghi che appaiono forzate quando non inverosimili, tuttavia, non mettono in ombra le qualità oggettive di questo romanzo e, in generale, del confermato talento di Butler. Ancora una volta l’autore si confronta con il mondo degli uomini, le difficoltà del diventare adulti, l’amicizia – tema a lui decisamente caro – , il contatto con la natura, in un romanzo che si snoda lungo tre generazioni di uomini, uniti da legami d’amicizia o di sangue, luoghi e riti che ritornano nel campo scout di Chippewa, dove passare l’estate e trovare – forse – il proprio posto, la propria identità. La critica letteraria italiana, in ogni recensione al romanzo di Butler, non ha mancato di richiamare Le otto montagne di Cognetti (appena entrato nella long list del premio Strega), accennando ad una certa affinità di fondo tra i due romanzi nel racconto dell'amicizia maschile, anche se forse è più vero il contrario: il bellissimo romanzo di Cognetti, infatti, si richiama ad una tradizione letteraria che in Italia negli ultimi anni sembrava essersi esaurita ma che rimane il nucleo di tanta narrativa anglosassone su cui come lettori ci siamo formati. 
Il romanzo di Butler è, quindi, una seconda prova senza dubbio notevole, acclamata dalla critica statunitense, costruita su diversi piani di lettura, che permette interessanti spunti di riflessione tanto tematici quanto strutturali.
Partiamo da qui, dalle scelte formali dell’autore: come sottolineato in apertura, Butler è – a mio avviso – prima di tutto uno scrittore di racconti e, ad essere del tutto sinceri, ho massima stima di chi sappia scrivere racconti, arte decisamente per pochi. Mettiamola così: tutti – più o meno – potrebbero scrivere un romanzo, ma davvero un numero limitato di scrittori padroneggiano l’arte del racconto. Capita poi che qualcuno di loro sia in grado di muoversi abilmente dall’una all’altra forma, contaminandole, prendendo tratti peculiari e modalità espressive ora dalla short story ora dal romanzo. È decisamente il caso di Butler, che sfida le etichette e da prova di essere un narratore a proprio agio con entrambe le forme. In questo secondo romanzo, l’influenza della short story è evidente, molto più rispetto a Shotgun Lovesongs: è, infatti, una narrazione quasi per frammenti, dove lo spazio bianco, la parte sommersa dell’iceberg – per citare, malamente, Hemingway – diviene protagonista tanto quanto ciò che è impresso a parole sulla pagina e, forse, ancora di più. Sono proprio quegli spazi “vuoti” che affiorano nel corso della storia, il non detto, le mancanze narrative, ad aggiungere valore a questo romanzo, a spingere il lettore ad entrare in dialogo con esso, sforzarsi di immaginare quello che c’è oltre la pagina scritta. Perché c’è davvero tanto – a tratti, forse, anche troppo – dentro e fuori le parole, la storia: uno spaccato dell’America rurale dagli anni Sessanta ad oggi, attraverso tre generazioni di uomini – padri, figli, amici, amanti – ognuno impegnato a combattere le proprie personali battaglie, metaforiche o reali.
A differenza di Shotgun Lovesongs, qui non c’è spazio per la struggente malinconia di cieli e spazi sconfinati, le descrizioni della natura e del paesaggio sono ridotte, essenziali alla narrazione, unico momento di lirismo che toglie il fiato. Ed è qualcosa che, avendo tanto amato il romanzo precedente, inevitabilmente manca in questa storia ma di cui, alla fine, ci si rende conto di quanto avrebbe stonato. E, soprattutto, di come sia importante sforzarsi di leggere questo romanzo indipendentemente dal resto, anche se il confronto con il primo romanzo è difficile da controllare, per non sminuire la lettura a semplice osservazione di punti in comune, temi ricorrenti o differenze, tra l’uno e l’altro.
Certo, nella produzione letteraria di Butler alcune tematiche, spunti, ambientazioni, ricorrono: il contatto con la natura, il mondo degli uomini, la predisposizione per narrazioni corali, l’influenza della forma breve. Tematiche e modalità espressive che in questo romanzo accolgono numerosi altri spunti, a partire, come si è detto, dall’interesse per il frammento e una narrazione che ha un debito evidente nei confronti della short story, fino all’introduzione di innumerevoli sfumature e temi su cui soffermarsi a riflettere.

Il cuore degli uomini, infatti, non è soltanto il racconto di un’amicizia – improbabile – che resiste alle differenze, al tempo, alle prove della vita, ancor meno uno sterilo inno allo stile di vita scout, alla natura, all’eroismo. No, questo romanzo a mio avviso è, soprattutto, il racconto di un mondo che va in pezzi, a partire dalla famiglia: di madri single che non sanno come venire a patti con la perdita e l’ideale, di mariti e padri violenti, alcolizzati, deboli, incapaci; di figli alla ricerca di una guida che indichi loro quale sia la strada giusta, di umanissimi eroi capaci di sbagli e debolezze; di legami che si spezzano o forse solo evolvono in qualcosa di diverso, di valori perduti, di solitudini e silenzi. La famiglia, si diceva: ancora una volta cuore della narrazione, perché in fondo non smettiamo mai – nel romanzo, nella vita reale – di interrogarci su quel primo legame, anche quando farlo è doloroso. Di padri e figli, soprattutto: Nelson, il giovane scout bersaglio dei bulli, senza amici e con la smania di conquistare quante più medaglie possibile, per essere ammirato, per dimostrare al padre Clete il proprio valore, per farsi accettare almeno dagli adulti. Emarginato, preso in giro, senza amici:

Ecco come lo chiamano gli altri ragazzi, adesso lo sa. Trombettiere. Non per omaggiare il suo incarico ma per dargli un soprannome da pronunciare con derisione. Un altro modo per farlo sparire.
Clete, una figura paterna troppo distante, vittima dei propri fantasmi e debolezze, incapace di essere marito, padre, guida. Alcolista e violento, se ne va senza guardarsi più indietro, lasciando un vuoto incolmabile in quella famiglia spezzata, nella costruzione per Nelson della propria identità di adulto.

Non che ci fosse molto dialogo a casa, del resto. Anche se Nelson sa che, da qualche parte, ci sono padri e figli che parlano, si siedono uno accanto all’altro durante le partite, lanciano una palla da baseball in giardino e spazzano le foglie come una vera squadra. È solo che questo non fa parte della sua esperienza, della sua vita.
A Nelson, tredicenne confuso, toccherà trovare figure paterne alternative, altri modelli maschili a cui aspirare. E diventare uomo, scegliendo la strada durissima dell’accademia militare: altre divise, codice morale simile a quello che ha conosciuto negli anni da scout. Ancora una volta bersaglio dei prepotenti, ma ormai capace di difendersi e farsi strada. Un uomo dai forti principi, messi alla prova dall’orrore della guerra, dal difficile reinserimento alla vita civile, dagli incidenti lungo la strada per trovare il proprio posto nel mondo. Eppure, nonostante tutto, un codice da seguire, fino alla fine, l’unico istinto su cui poter sempre contare.

Adolescenti confusi, adulti irrisolti: come Jonathan, l’unico amico di Nelson, che sebbene sia da tempo un uomo non sembra aver davvero imparato a vivere; è una figura triste, un bullo troppo cresciuto, un uomo di mezza età di bell’aspetto e ricco ma un po’ patetico.

Jonathan beve birra per ricordare la libertà dei suoi giorni al liceo e all’università e beve vodka per dimenticare la realtà della sua situazione attuale: quarantanove anni, della borghesia medio alta, sposato senza esserne davvero felice, proprietario di un minivan e di un’intera flotta di autoarticolati, destinato a fare un’altra colonscopia in meno di due anni.
Un debole, in fondo, non del tutto capace di essere padre. E quel figlio, Trevor, per avere una chance dovrà necessariamente prendere le distanze, diventare un uomo quanto più possibile diverso da suo padre, con principi e valori che forse non sono soltanto il sogno ingenuo di un ragazzino ma la sua identità, la sua forza. È proprio Trevor probabilmente la figura più puramente eroica di questo romanzo, per sempre idealizzato da chi lo ha amato e perduto, un fantasma ingombrante per coloro che non l’hanno conosciuto e che dal confronto rischiano di rimanere schiacciati. Sono tutti uomini a loro modo imperfetti, tristemente reali per questo, tormentati.
Intorno ai tre protagonisti, personaggi corali che arricchiscono la storia, gettano luci ed ombre sulla vicenda, svelano sfumature qualche volta inattese del carattere. Nessuno di loro è completamente malvagio, nessuno di loro, allo stesso modo, è perfettamente immacolato: sono uomini con difetti e mancanze reali, come reali sono i principi che muovono alcuni di loro, l’istinto al bene, al coraggio, alla scelta giusta guidata dal cuore più che dal cervello. Eroi? Forse, almeno uno. Anche se è davvero difficile non farsi schiacciare dalla violenza che ci circonda, dal male che corrompe il mondo, dalla paura che sempre più spesso sembra guidare le nostre azioni. 

Al centro della storia, quel campo scout a cui tornare, una generazione dopo l’altra. Di quel mondo, Butler racconta le sue rovine, con struggente malinconia: abitudini e principi che sembrano ormai anacronistici, mentre tutto intorno pare andare in pezzi, corrompersi per sempre. È l’America nei suoi momenti più oscuri, la perdita dell’innocenza, la mancanza di una guida, la dipendenza, le difficoltà di diventare adulti; e, soprattutto, l’America dei ragazzi mandati a combattere, prima in Vietnam, poi in Afghanistan, l’orrore più o meno identico, la lunga attesa carica di paura di quelli a casa, la fine dell’innocenza. Le pagine più dolenti prendono vita per mezzo del racconto indiretto o messo a fuoco da una certa distanza temporale, e spingono il lettore ad interrogarsi ancora una volta su quanta umanità abbiamo perso, ogni volta, nel nome di una guerra giusta, sugli orrori indicibili che non smettono di tormentare i sogni di chi non è mai davvero tornato a casa, sulla difficoltà di reinserimento dei veterani nella vita civile.

E così, per la prima volta da quando aveva lavorato in quel ranch nel New Mexico. Nelson parla della sua esperienza in Vietnam. Racconta al ragazzino del terribile ronzio delle mosche sopra i bambini dagli occhi spalancati, delle cicatrici lasciate dal napalm sulle gambe delle ragazzine, dei bordelli e delle pipe per fumare l’oppio e degli incubi acidi; gli racconta delle lunghissime agonie degli amici, con le ferite sul petto che li facevano rantolare in maniera penosa; delle lettere ricevute da fidanzate e mogli che si erano fatte nuovi amanti, dei genitori che erano morti, dei chierichetti che si erano dimenticati di Dio, di quelli che un tempo erano stati scout e ormai facevano solo nodi per impiccarsi; degli uomini che avevano ucciso e che non erano uomini ma solo ragazzi come Trevor, solo ragazzi.
È un’America a pezzi, lontana anni luce dalla terra idealizzata di possibilità e sogni realizzabili, ma un Paese che deve ancora fare i conti con il proprio passato, con le conseguenze pesantissime delle sue scelte, con il germe della discriminazione, della paura e del pregiudizio ad insidiarsi perfino nei luoghi più impensabili. Non è un romanzo sulle conseguenze della guerra così come non lo è sul bullismo, eppure di entrambi è fortemente intriso e costringe a riflettervi, senza dare risposte univoche. È molte cose: storia di padri e figli, di famiglie a pezzi, di fantasmi e tormenti; della vita ordinaria di uomini comuni, tra successi e cadute, nell’affannosa ricerca della propria identità, del proprio posto nel mondo. E di amicizia, naturalmente: ma quella imperfetta, che inaspettatamente resiste al tempo e alla vita che si mette in mezzo, che nel confronto con l’altro ci mette di fronte a noi stessi, alle nostre paure, al tipo di persona che vogliamo diventare.

Amico d’infanzia, è stato davvero così? Cos’erano l’uno per l’altro? I loro legami erano così deboli: estati insieme, lettere durante l’università, e quelle bevute o cene occasionali che alcune persone potrebbero etichettare freddamente come networking. Eppure, in qualche modo, lui vuole bene a quest’uomo. Gli vuole bene per la vita improbabile che ha fatto, per il suo codice morale semi-rigido e la vecchia bussola fiera che ha sempre avuto nel petto e che puntava nella direzione giusta: il vero nord.
L’imperfezione di questa amicizia, la lontananza da qualsiasi ideale romanzesco è, a mio avviso, l’elemento più interessante del legame decennale tra Nelson e Jonathan, in cui non ci sono eclatanti epifanie, ma momenti di vita, prove d’affetto e attimi di egoismo che si alternano a caso, anni che scorrono, distanze e differenze, eppure un legame che resta. E travalica, perfino, i due protagonisti per intrecciarsi alle storie di altri, influenzarle, cambiarle per sempre.

«Questa è la lezione.»
«Quale?»
«Che tutti ti deluderanno prima o poi. Tutti.» 
È, infine, il lamento malinconico di fronte alla perdita di valori per molto tempo considerati importanti, la risposta alla confusione del tempo in cui viviamo. Ecco, su questo aspetto, ancora un attimo, vale la pensa riflettere: Il cuore degli uomini, con i suoi salti temporali, le tre generazioni protagoniste, è un romanzo in aperto dialogo con il presente, che rifiutando la filosofia spicciola e le considerazioni semplicistiche getta spunti di riflessione interessanti sul mondo in cui viviamo e la necessità sempre più urgente di preservare valori e principi che possono renderci uomini migliori.
"Prometto che farò del mio meglio", il codice scout: quasi mai ne siamo all’altezza, ma non dobbiamo rinunciarvi.






Di Debora Lambruschini