La città interiore
di Mauro Covacich
La nave di Teseo, 2017
pp. 233
€ 17,00
Tutto comincia con una fotografia. Lo scenario si configura attraverso una somma di dettagli: il bambino che cammina, lo schienale della sedia, il vetro che scrocchia sotto i piedi, i lampi abbacinanti del sole; il lessico della tenerezza, che lascia immediatamente intendere che questo “uccellino cresciuto per strada” è figura cara, e che quasi sicuramente lo rincontreremo. È il 4 maggio 1945. Trieste è appena stata liberata, anche se sono chiare fin da subito le ambiguità insite nell’operazione (ovunque le prove tangibili del “governo degli amici jugoslavi corsi a occupare la città per liberarla meglio”, 11).
Tutto comincia dunque con la fotografia. Con l’indugio descrittivo e la forza espressiva dell’ekphrasis. L’oggetto artistico – in questo caso anche storico e sentimentale – diventa fondamento del reale, impulso alla narrazione. Si ritrova in questo una tendenza connaturata all’autore, nei cui scritti il piano della creazione e quello della vita sono spesso intrecciati e si influenzano reciprocamente; da qui il fascino per la performing art e il desiderio di implicarsi personalmente nella propria opera: l’arte può produrre effetti concreti, diventare creatrice di vita? E, di contro, la vita può farsi performance, raggiungere la perfezione del prodotto artistico? Per tali domande sembra impossibile trovare risposte assolute, anche se Mauro Covacich ci prova e, a tratti, ci convince di esserci riuscito.
Il progetto è quindi ambizioso e La città interiore risulta un volume di difficile categorizzazione: non è propriamente un romanzo, eppure la cifra narrativa è fondamentale e il lettore viene subito trascinato nel fluire della storia (che ha sempre la duplice valenza di “vicenda narrata” e di “Storia” con la “s” maiuscola); non è propriamente un saggio, eppure al suo interno si avverte una forte istanza di ricerca, un innegabile slancio documentaristico. Il concetto che si avvicina di più a una definizione pertinente è allora forse quello di memoir: memoriale autobiografico, che ripercorre la storia di una famiglia – la famiglia dell’autore stesso – cercando di trovare una definizione identitaria valida per il presente, e memoriale di una città, Trieste, la cui natura intrinseca è proprio quella di sfuggire a ogni tentativo di inquadramento, a ogni possibile definizione semplicistica.
Il motivo della memoria, determinante all’interno dell’opera, è anticipato già dalla citazione in esergo (“La nostalgia è non avere patria nel tempo”, W. Kentridge) e poi ripreso successivamente. Parlando della sorte degli esuli, non solo quelli istriani, ma quelli di ogni tempo, di ogni luogo, l’autore osserva che “solo così puoi farcela, solo se abbandoni le certezze del posto da cui sei partito e ti butti nel vuoto. Poi però succede che il posto da cui sei partito ti viene a cercare. La memoria è una brutta bestia, spesso agisce contro la tua volontà” (90). Non può non venire, a chi legge, il sospetto che proprio questa nostalgia, questa memoria, siano i motori che hanno spinto alla composizione dell’opera: è la memoria che spinge il pensiero all’indietro, sulle tracce di un’epopea familiare che contamina il sangue slavo con quello lucano, che coinvolge le periferie urbane dove gli abitanti – formiche indaffarate e stanche – acquisiscono uno sguardo marginale e decentrato sul mondo che può talvolta diventare risorsa. La memoria innesca il viaggio: un viaggio che è ricerca emotiva di un’identità confusa e dimenticata, ma anche ricerca fisica, faticosa e reale, di un luogo concreto del ricordo, la tomba (inesistente) di un poeta quasi omonimo e quasi sconosciuto, Ivan Goran Kovačić. E se metaforica è la città interiore (specchio di un labirinto mentale continuamente indagato), metaforico diventa anche il viaggio stesso; c’è una colpa atavica da espiare, un tradimento che deve essere scontato sul sepolcro del “fratello morto”:
forse è un’altra la guarigione che sto cercando. Mi ritrovo sempre più a propendere per una febbre autoindotta, il genere di avaria psicosomatica che non si risolve con la cura, bensì col perdono. Quindi è questa la ragione del viaggio? Non le radici, non il ritorno a casa, […] ma una stele funeraria, la croce del fratello morto che mi assolva dall’indifferenza, dalla non appartenenza. Sei italiano o sei slavo? Se porti quel nome perché non parli croato? Se sei italiano perché ti chiami così?
Forse per pagare l’imperdonabile dimenticanza di un sangue diverso eppure comune (quanta distanza può esserci in due lettere differenti? Basta davvero così poco a indicare una diversa sostanza, una diversa essenza?), a questo fratello l’autore rende omaggio, inizialmente con un’imitazione fisica che implica quella morale – un cappotto ricercato e indossato per anni, per assomigliare a chi già ci somiglia –, in seguito con la celebrazione di un poema troppo poco noto sul suolo italico. Non è un caso che proprio nella parafrasi letteraria di Jama (fossa, ma anche foiba), la narratività si impenni e il lettori ritrovi il Covacich migliore, quello capace di creare universi e dar loro spessore e dignità. È questa del resto una caratteristica dell’opera: gli uomini e le donne che abitano La città interiore sono sempre figure a tutto tondo, che emergono dalla pagina con un effetto quasi scultoreo – omaggio ancora una volta alla contaminazione di arte ed esistenza. Arrivati alla fine, personaggi che ci erano ignoti, come Pino Robusti o Antonio Bibalo, ci diventano familiari e affini. E quello che potrebbe configurarsi come un insieme confuso finisce misteriosamente per funzionare grazie al trattamento che lo scrittore riserva al tempo: nell’opera il passato, il presente e il futuro coesistono, si alternano e si sovrappongono senza soluzione di continuità. Ogni frammento di realtà che viene proposto va a costituire un mosaico in cui tutti i tasselli hanno uguale rilevanza. Emerge l’idea di un tempo fluido, continuamente reversibile, al cui interno si creano connessioni emotive, più che logiche o cronologiche. L’effetto immediato è quello di uno spaesamento del lettore, che finisce così per ritrovarsi perfettamente in linea con lo spirito dell’autore e con il tema affrontato: è la propria ricerca, quella di cui si sta leggendo, il proprio viaggio, la propria identità. Il regalo più grande che fa allora Trieste a chi ha il coraggio di esplorarla – seppur indirettamente, con passi altrui – è proprio questo: di diventare città di tutti, di raccontare la storia di ognuno.
Carolina Pernigo
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