#PagineCritiche - Sono gelosa. E allora?

La gelosia. Una passione inconfessabile
di Giulia Sissa
Laterza, 2017

Traduzione di Carlo De Nonno
1^ edizione originale: 2015

pp. 280
€ 13 (cartaceo)



Ridiventare capaci di godere del tragico, ossia di comprendere la sofferenza intrinseca all'amore, in Euripide come in Seneca, Corneille, Shakespeare o nella nostra stessa vita, è la scommessa di questo saggio. (p. 144)
La gelosia (quando non è eccessiva) è normale, onesta, imprescindibile dall'amore e dal desiderio dell'altro. Senza dubbio, è un sentimento ancora molto discusso nel nostro presente, in cui una dose eccessiva di gelosia dà vita purtroppo a violenze e gesti estremi. Eppure, al di là della cronaca nera, la gelosia viene ancora confessata a fatica, come se fosse qualcosa di riprovevole. Di per sé, secondo Giulia Sissa, la gelosia non dovrebbe essere un sentimento da insabbiare, rendendolo inconfessabile: gli antichi, a cominciare dai Greci, rivelavano la gelosia, indissolubilmente connessa alla collera erotica, come provato nella Medea di Euripide. Tale «collera erotica», nata dall'infrazione del rispetto del rapporto amoroso tra Medea e Giasone, innesca una reazione a catena di vendetta e sofferenza, in qualche modo giustificata dagli antichi. Ma nelle riscritture successive, la Medea risente del passare del tempo e muta in base al pensiero delle diverse epoche: così la Medea di Seneca si conforma alla sua visione stoica, in base alla quale «soffrire è una scelta. Più precisamente, un errore» (p. 22), che plasma la collera erotica rendendola «qualcosa di inammissibile, che non bisogna assolutamente dire» (p. 31). Se con la riscrittura di Corneille nel 1635 Medea si trasforma in un'eroina cristiana, ecco che Giasone si merita una punizione esemplare, che troverà nel suicidio finale. Eppure, prima di morire, il Giasone di Corneille fa una cosa senza precedenti: deride l'ira di Medea, inutile, senza nerbo né effetti. Insomma, mentre Medea vive una tragedia senza pari, Giasone vive una commedia che rende risibile la collera erotica.

E col tempo la concezione negativa della gelosia non fa che radicarsi: dal XVIII secolo fino a oggi la gelosia diventa qualcosa di riprovevole da confessare e, persino, da provare. Eppure accade. Abbandonata la scansione cronologica nel trattare di Medea nel primo capitolo, i criteri di accostamento di opere letterarie e pensiero filosofico sono decisamente liberi da un ordine rigido. Quel che sta a cuore all'autrice (forse troppo) è mettere in luce la legittimità della gelosia, svincolandola dai pregiudizi ancora presenti. Il problema sta proprio qui: chi sta cercando un saggio formalmente inappuntabile si stupirà di tanto in tanto per le incursioni autoriali nella propria vita, sfuggendo dall'oggettività che pertiene al genere saggistico. Parimenti, non mancano giudizi piuttosto personali e figli della nostra epoca su opere del passato che andrebbero senza dubbio inquadrate con maggiori cautele nel loro contesto e, come tali, risparmiate da commenti contemporanei piuttosto opinabili. 
Eppure, al di là di alcuni passi (specialmente nella seconda parte) che trasformano il saggio in un'apologia accorata della gelosia, tradendo un eccessivo trasporto personale, gli spunti di riflessione e di approfondimento sono davvero molti. Così, ad esempio, si scopre come la gelosia sia stata vista da Hobbes, Rousseau, Diderot: il soggetto diventa spesso oggetto d'amore, dal momento che 
«per i filosofi dei Lumi si tratta dunque, in primo luogo, di una rivalità, una rivalità che riguarda dei beni. In senso amoroso, la gelosia è un'inquietudine, un allarme, un timore. Essa tradisce la dolorosa insicurezza di una persona che dubita del proprio valore» (p. 72)
Ben diversa è la concezione di Stendhal, teorico dell'amore, che ha la famosa intuizione della "cristallizzazione", «vale a dire la trasfigurazione immediata e improvvisa che ci fa vedere la persona sulla quale, casualmente, si appunta il nostro desiderio come una persona brillantissima ed eccezionale» (p. 79), idealizzandola. E questa volta la gelosia non deriverà dal possesso di un oggetto, ma, al contrario, dalla consapevolezza che non lo possederemo mai davvero. 
Visione profondamente detrattiva è poi quella di Kant, che inquadra la sessualità in una dimensione etica molto forte: «ogni uso non procreativo degli organi sessuali, sia da parte di altri che di noi stessi [...] è un attentato nientemeno che all'"umanità"» (p. 100). È facile, dunque, dedurre cosa si può accostare al sesso: «degradazione, abbassamento, disonore, svilimento, vergogna, sporcizia» (p. 103), ben diverso dalla visione di Hegel dell'innamoramento come di un "riconoscimento" e non di una "oggettificazione". 

Il salto temporale, dopo i filosofi succitati, si fa notevole: e si passa alla visione di Simone de Beauvoir, con il suo Il secondo sesso (1949), per poi tornare a Proust di Alla ricerca del tempo perduto, toccando letture psicoanalitiche di Freud, Lacan,... E in un enorme (e forse inatteso) excursus, l'autrice torna a parlare di Shakespeare, si riaggancia a Stendhal, arriva a Sartre che raffronta con de Beauvoir, poi sembra acquietarsi in un più ampio ritorno alle origini, ovvero alla trattazione dell'amore e della gelosia in Ovidio, le cui opere fa dialogare con Lucrezio, secondo una scelta comprensibile, ma probabilmente più efficace in un'altra parte del saggio. 

In conclusione, il saggio, profondamente ibridato di soggettivismo e di esperienza personale, qui e là con poderose virate verso il manuale di auto-aiuto, risulta una lettura interessante ma anche controversa, dal momento che il genere saggistico risulta più volte tradito (per restare in tema). Certamente un libro da leggere con il senso critico bene all'erta; ancor meglio se si conoscono bene le opere originali di cui l'autrice discute. 

GMGhioni