La mia famiglia è scomparsa in un solo giorno, è successo tutto in tre quarti d'ora. Era il sette aprile mille novecento novanta quattro alle dieci del mattino. Non erano previsti cicloni, i cuculi cantavano, i vulcani tacevano, il Nilo dormiva tranquillo nel suo letto. Da infinite generazioni abitavamo una terra generosa. La nostra unica sventura, in quello scorcio finale del ventesimo secolo, ci venne dal fatto di convivere con uomini ideologizzati.
Ruanda, 1994, collina di Kimihurura: l'inizio di questo libro coincide con una fine, la fine dei tempi. L'autore parte dal mattino che ha visto la distruzione della sua famiglia, momento nel quale si rispecchia lo sterminio di un'intera nazione. Si fa fatica a esprimere il senso di una condanna totale che ha coinvolto migliaia di famiglie in tutto il Paese: la sfida è trovare una lingua per descrivere il dolore.
Dorcy Rugamba, attore, regista teatrale, ballerino e scrittore, ci prova usando la lingua nativa, quella della madre e delle madri, il kinyarwanda. La ricerca linguistica diventa nel libro ricerca di senso: è solo attingendo alle parole di un vocabolario d'origine che si può tentare di cogliere la dimensione di un evento epocale nella vita del singolo e della comunità. Per dieci anni Rugamba si è arrovellato alla ricerca di una spiegazione, il suo è il percorso del superstite destinato a convivere con le conseguenti presenti e future del male, sempre vertiginosamente vicino all'epicentro del dolore.
"Sappiamo bene che quello che cerchiamo di tradurre in parole rimane fuori dalla nostra portata", scrive lui, continuando: "queste parole di per sé non significano niente, possono perfino essere pericolose perché mostrano l'orrore in modo sensazionale, come se la descrizione più pulita di un crimine lo rendesse meno grave". Eppure il lettore è colpito, ferito e messo a tacere dalle parole, si richiude nel silenzio della lettura e nella decrifrazione impossibile di un dramma universale.
La ricerca della parola diventa anche riscoperta dell'umanesimo ruandese e dei valori ancestrali dei quali è impregnata la terra dei Batutsi: l'Ubupfura, la nobiltà e grandezza d'animo, l'Uburere, l'educazione trasmessa dalla famiglia, l'Ubutore, il tessuto dei valori cavallereschi.
Rugamba ci porta in viaggio tra l'origine dei nomi, le tradizioni cristiane che hanno le radici nell'arrivo dei primi missionari, l'educazione alle arti nell'Itorero, una delle più antiche istituzioni ruandesi, i siti funerari con gli enormi alberi di ficus a fare da guardiani alle anime.
E poi la sua ricerca personale di una spiritualità e l'approdo all'islam, di fronte allo sguardo di due genitori cristiani che accettano la scelta non senza dolore.
Pur nel faticoso racconto di un male inesprimibile, il libro è come una danza, la danza dell'Intore, l'eletto danzatore. Una danza guerriera, come esprime il nome "Rugamba" che vuol dire guerra, ma che il padre Rwamo ha tramutato in guerra della pace.
È anche un regalo a due genitori per i quali si mostra devozione e riconoscenza e verso i quali rimane il rimpianto di un debito mai saldato.
Noi tutti, soprattutto chi non conosce nulla dei cento tragici giorni del Ruanda, possiamo leggere questo libro per provare a nostro modo a saldarlo. Al di là delle distanze geografiche, delle origini e degli orizzonti storici, tutti gli uomini sono chiamati a farsi testimoni di quanto è accaduto.
Non è possibile descrivere con parole semplici un crimine che ha tranquillamente svuotato un'intera città. Esistono parole tanto concrete quanto un proiettile alla tempia sparato a bruciapelo? Quali parole potrei mai usare per raccontare con il dovuto distacco la testa di un adolescente squarciata e il suo cervello messo a nudo?
La morte di per sé non c'entra, fa parte del gioco, è l'ultimo articolo del contratto che garantisce il ricambio tra le generazioni e perpetua la vita. Ma un uomo dovrebbe spegnersi quando arriva il suo turno e andarsene da solo, lasciando i vivi a occuparne il posto. Qui invece gli uomini se ne sono andati in massa, quasi tutti, lasciando qua e là una donna, un bambino, un giovane, un vecchio, un essere spoglio, sconcertato e solo in un deserto, che non ha il coraggio di raggiungerli per chiudere la storia, che non ha neppure la capacità di sostituire gli assenti perché il suo corpo scarno non può certo riempire la terra.
Rwamo, mio padre, ha vissuto tutta la vita con una penna in mano. È cresciuto in un Ruanda infuocato, ha fatto del suo meglio per evitare gli incendi e alla fine è morto tra le fiamme. Secondo lui il Ruanda non doveva dimenticare se stesso [...] A dodici anni un padre non lo ami, lo veneri come un dio. Io lo adoravo in modo assoluto. Non appena sentivo pronunciare il suo nome, sussultavo, ero il guardiano della sua immagine.
[Mia madre] la amavo con tutto me stesso, piedi, mani, cuore, naso, orecchie, occhi e papille gustative, sapeva di fiori d'arancio e di rugiada mattutina e rappresentava quella delizia infantile con cui ci si consola da adulti. Per dedicarsi a noi aveva rinunciato al suo lavoro di maestra [...] aveva trasformato la nostra educazione e il nostro benessere nella sua unica ragione di vita.
Mentre fuggivamo attraverso le campagne verso il Burundi, dietro di noi il Ruanda che i nostri padri avevano servito con fervida convinzione, veniva polverizzato, abbattuto a colpi di napalm e di arma bianca [...] Non c'era nessun luogo in cui si poteva trovare rifugio e sfuggire all'uomo che si era trasformato in belva, in semplice mammifero.
A cura di Claudia Consoli
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