Contraddisse e si contraddisse
Le solitudini di Leonardo Sciascia
Di Rosario Castelli
Franco Cesati Editore, 2016
€ 15,00
Sulla vita e le opere di Leonardo Sciascia vi è un filone di critica molto attiva, che negli ultimi anni ha rinvigorito tutta una serie di studi, guardando allo scrittore racalmutese con nuovo slancio e spunti non banali. Una delle domande più frequenti su cui i lettori e i critici si interrogano è: cosa avrebbe pensato dei nostri tempi Leonardo Sciascia? Come si sarebbe inserito nel dibattito odierno un uomo che odiava definirsi intellettuale, che odiava in genere ogni forma di etichettatura e che propugnava a spada tratta la verità, seppur scomoda, ad ogni costo?
Sono domande che resteranno, come è logico, senza una risposta. Molti dei nodi cruciali della vita di Sciascia, al contrario, vengono riproposti in questo interessante saggio di Rosario Castelli, studioso di Letteratura del Novecento, professore di Letteratura Italiana e Letteratura e Cinema all’Università degli studi di Catania, appassionato di linguaggi visivi.
Nei sette capitoli in cui si divide il testo, Castelli analizza temi fondanti dell’epopea sciasciana; nel primo capitolo, ad esempio, con l’articolo pubblicato sul Corriere il 10 gennaio 1987, dal titolo I professionisti dell’antimafia, si parla di una delle querelle cruciali della vita di Sciascia, ma forse della vita di un intero paese e di un sistema di valori. Un articolo che, con le sue svariate interpretazioni, segnò un momento fondamentale nella storia dell’Italia Repubblicana. Il titolo non fu un’idea sciasciana, ma fu assegnato – come succede ancora oggi – dalla redazione. Mai fu proferita parola sul “professionismo dell’antimafia” nell’articolo; l’assunto principale si basava sulla nomina di un giovane Paolo Borsellino, indicato dal Consiglio Superiore della Magistratura per la carica di Procuratore della Repubblica a Marsala, “per la sua specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”, contravvenendo ad ogni altra regola di “anzianità” di carriera, seguita in precedenza per tali cariche, all’interno della Magistratura. Da lì la confusione – e Borsellino non se la prese mai per questo, anzi ebbe modo di chiarirsi con lo scrittore – su ciò che Sciascia chiedeva davvero, ovvero regole chiare per la nomina così importante di un magistrato, al di là nel curriculum personale o del caso specifico; un metodo univoco di valutazione per assegnare incarichi così delicati – e ne farà subito dopo le spese Falcone, a cui verrà preferito, per la carica di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, per anzianità, un quasi pensionato Antonio Meli – era quello che Sciascia voleva, chiedendo che la Magistratura potesse assumersi anche la responsabilità di cambiarle quelle regole, ma non applicarle con approssimazione.
Interessante è la ricostruzione del concetto di cretino, nel capitolo terzo e le sue varie declinazioni. Dal cristiano francese, cretin e chretien fino al cretino di oggi ne passa, eppure da lì molti dizionari accreditati, come racconta Castelli, prendono l’etimologia. I cretini sciasciani sono tanti, a partire dal professor Laurana di A Ciascuno il suo fino alla riscrittura di un personaggio popolare come Giufà, che Sciascia ricollega all’epopea del vicinato, cioè a quel giullaresco modo di vivere alla giornata pur di non riflettere sulle condizioni di un’esistenza difficile; per non parlare delle sue figure di ispettori, quasi tutte in debito con la figura di Don Chisciotte, per quel gusto a intestarsi battaglie perse.
E qualche giorno fa sui nuovi cretini social, di cui ha avuto anche modo di parlare Umberto Eco, si è anche espressa sulla sua bacheca facebook la scrittrice Elvira Seminara, su coloro che ostentano la propria cretineria come fosse un capitale di innocenza sociale, flessibilità e verginità mentale, immaginando poi i disastrosi esiti di un incontro tra uno stupido funzionale e un cretino cognitivo, il tutto per riflettere con eleganza sulla nuova ignoranza prodotta dal mercato. Di cretini e di cretineria insomma è piena la nostra società, e non è un discorso di classe o di elite, si badi bene, sulla padronanza sociale da parte delle masse “ignoranti”, che l’Italia è un paese in cui i furbi sono più dei cretini, in cui la diffusione di un messaggio è sempre funzionale a qualche politica collegata, in cui, come si dice in Sicilia: “si fa lo scemo per non pagare dazio”.
Ma tornando alle parole, che poi era anche un vezzo di Sciascia, che con l’etimologia giocava e ci andava a nozze, come alcuni volumetti dimostrano, quali ad esempio Occhio di Capra dell’84, tutta l’opera di Sciascia è in qualche modo permeata da una parola, ovvero la polemica; l’origine della polemica è il greco polemos, che vuol dire guerra. E tutti indossano le armi i suoi personaggi, l’arma della logica, del ragionamento, del contesto di cui capiscono per intuizione, quell’intuizione che Castelli chiama “paradigma Dupin” dal nome del tanto amato investigatore di Edgar Allan Poe, che intuisce appunto la verità.
Potremmo subito identificare la polemica sciasciana come una polemica programmatica ed effettiva, più che letteraria. Il genere della polemica in Sciascia è un genere più vicino al suo modo di essere, di intendere le cose, che di scrivere secondo canoni polemici, e lo stesso Sciascia lo sottolinea nell’intervista alla giornalista Marcelle Padovani, poi pubblicata in la Sicilia come Metafora (Mondadori, 1979). Questo appartiene senzaltro ad un filone meridionale, in particolare di alcuni scrittori siciliani, come ha bene spiegato Ambroise nella sua introduzione all’Opera Completa su Sciascia per Bompiani.
La polemica sciasciana è analizzabile da un punto di vista sincronico, all’interno delle sue opere, ma anche da un punto di vista diacronico, mettendola in relazione con la polemica che nacque prima di lui e da cui trae spunto, ovvero Voltaire, Courier, gli spagnoli, i francesi, Manzoni, fino ad arrivare alla polemica a lui coeva, mossa da Pasolini, amico citato anche nell’incipit dell’Affaire e a lui posteriore.
La solitudine è ciò che ne scaturisce – anche se, come ha avuto modo di spiegare bene Castelli, in un incontro di qualche giorno fa alla libreria Trebisonda di Torino, Sciascia non era un uomo solo, ma era intellettualmente isolato - e da qui il suo rapporto ancora con Pasolini, che lodò Le Parrocchie di Regalpetra scrivendo una lettera a Sciascia in cui attestava il “vero, forte e commosso, senso di fraternità” che lo legava a lui, e di cui Castelli ci parla nel capitolo sesto, alludendo ai loro punti di vicinanza e alle loro estreme differenze - in primis l’omosessualità, grande tabù per Sciascia - entrambi colpiti da un lutto mai scordato, la morte del fratello,”ciascuno in lotta con il fantasma di un dolore mai risarcito”. Il rapporto con Pasolini fu per Sciascia un rapporto postumo di vicinanza, incapace in vita lo scrittore di essergli amico, per la troppa differenza nel modo di essere e di vivere, poi compreso solo dopo, nell’accorgersi di aver “pensato le stesse cose, dette le stesse cose” dell’amico, ma come sommessamente.
Tornando all’assunto iniziale, con più consapevolezza, dopo aver viaggiato attraverso alcuni dei temi di questo saggio, possiamo ora chiederci: Cosa rimane oggi dell’eredità di questi due scrittori?
E la risposta, tanto temuta, è che ci resta
Poco più della sensazione di un indefinito disagio, di fronte a un <intero, coerente quadro politico> in cui ancora <sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero> e rispetto al quale gli intellettuali di oggi, lungi dal saperne ristabilire la logica, sono ormai impotenti o, nella migliore delle ipotesi inascoltati.
Per non tacere di quanto poco abbiano interiorizzato gli italiani di quella lezione, la presenza sciasciana è stata rimossa dalla coscienza pubblica, dal mal governare democristiano del Contesto, troppo imbarazzante, al prete che gioca col diavolo in Todo Modo, così come tutte le battaglie radicali, liquidate come un abbaglio o un senile smarrimento ideologico.
Ho molto apprezzato la parte in cui Castelli racconta del perché lui e prima di lui Vittorini, Pasolini ed altri aderirono a quel partito radicale: perché era il partito delle battaglie, era la coscienza critica del Paese su temi però abbandonati e negletti e come fa ancora notare Castelli, si impegnavano su temi specifici senza che questo implicasse una consonanza ideologica globale con chi se ne faceva promotore e interprete.
Se da questo essere polemico è derivato anche il paradigma della solitudine, da questo essere coerente a se stesso e alla verità sempre e comunque, a costo di dire cose scomode, deriva il suo contraddirsi. E non può che essere così, perché non bastava avere l’idea delle cose, bisogna entrarci dentro. Questo ha fatto Sciascia, contraddicendo chi si intestava battaglie senza farlo davvero, contraddicendo dai giornali i benpensanti, gli schierati, i detentori delle verità assolute in nome di un’unica e sola verità, quella della giustizia; anche a costo di sembrare contraddittorio e fornire il fianco a molte di queste superficiali e vuote accuse.
Polemica, isolamento e contraddizione. Questi elementi, dentro il saggio di Castelli come dentro la vita di Sciascia, sono tutti quindi collegati tra loro, sono tutti parte del progetto di vita di Sciascia, aleggiano nella sua opera, nel suo impegno, nel suo modo di essere dentro le cose ma mai asservito ad esse, con la possibilità di osservarle attraverso una lente, o da un cannocchiale se preferite, come fanno molti dei suoi personaggi e come lo stesso Castelli ha rimarcato nel secondo capitolo di questo bel saggio. In cui chiarisce il debito di Sciascia verso De Roberto nella loro capacità di vedere la storia mentre fluisce, mentre avviene, senza farsene avvinghiare. Trovando spesso modi distorti o scomodi per raccontarla, come in una lente o in una boccia di vetro per lo strutto dove una progenie mostruosa viene conservata perché il figlio del protagonista dei Vicerè, Gerolamo Lamola, non si arrende al suo sogno di prosecuzione della razza e da cui una marcescente genealogia vedrà i natali, poi meglio spiegati nell’Imperio, in cui il protagonista Federico Rinaldi, assiste da vicino, con un cannocchiale appunto, alla prima seduta di Montecitorio, non comprendendo dove fosse la Destra e la Sinistra per quel trasformismo così noto ai secoli seguenti, ma felice di trovarcisi dentro quella storia.
Poi c’è la questione dello stile, e a tal proposito ho già avuto modo di notare come sia quasi una trasformazione quella che avviene nello stile di chi si accosta a Sciascia, e ne resta come invischiato. Il suo procedere osservando la ragione e con la ragione è contagioso. E forse per affinità elettiva o per vicinanza d’intenti chi ama e studia Sciascia finisce per prendere un po’ del suo essere, che si evince in un modo scrupoloso di procedere, in una capacità affabulatrice, in una chiarezza espositiva, non cattedratica ma necessaria. Ogni studioso di Sciascia ha come dogma la verità e come spada la penna, e così è anche per Rosario Castelli.
Stando così le cose è evidente come in questo libro si individuino elementi nuovi della parabola sciasciana. Parabola che risulta infinita, per temi e motivazioni. Spesso però le tematiche sciasciane, come campi aperti in cui passeggiare, hanno lasciato indietro proprio Sciascia stesso, con la scusa di dare le cose per scontate o di evitare di ripetere cose note, dando giudizi affrettati sul suo impegno, sulla sua rigida adesione al dettato della verità, sulle implicazioni della sua vita dentro le sue opere. Quello che Rosario Castelli fa, in questo saggio, è tornare ad approfondire, tornare a questioni cruciali e chiarirle con la luce del contesto, con il piglio di chi non giudica ma indaga, scopre e infine scrive nero su bianco, anzi, come direbbe Sciascia, Nero su Nero.