Stelle ossee
di Orazio Labbate
LiberAria, 2017
€ 10,00
pp. 112
Succede spesso che il racconto sia scelto dagli autori come laboratorio in cui affinare i propri strumenti, sperimentare i temi cui si vuole dare voce, per poi riversare i frutti di quest’elaborazione in forme di narrazione più lunghe. I racconti di Orazio Labbate, raccolti nel volume Stelle ossee (LiberAria 2017) non fanno eccezione, dato che ritroviamo, pagina dopo pagina, molti dei temi confluiti nel romanzo Lo Scuru (che era stato recensito qui) pubblicato da Tunuè nel 2014. Alcuni di questi racconti sono stati pubblicati tra il 2013 e il 2016 su riviste come Nazione indiana, Nuovi Argomenti, Il primo amore in Italia e «PEN/America» e «Guernica/Pen Flash series» in America.
«La mia scrittura è nata dalla morte», ha scritto Orazio Labbate su Nuovi Argomenti, raccontando di come abbia cominciato a scrivere in seguito alla morte della nonna; da allora ha scelto un luogo e un tempo in particolare per la sua scrittura:
«Il cimitero e la notte sono dunque rispettivamente: territorio e dato cosmico necessari perché io sia un narratore».
E nottetempo vivono anche i personaggi di questi suoi racconti, ambientati a volte in vaghi luoghi americani, poiché l’immaginario dell’autore è anche imbevuto di letteratura americana da Hawthorne a Faulkner; ma questi luoghi potrebbero essere anche certi aridi paesaggi dell’entroterra siciliano.
In un’intervista Labbate ha definito il suo rapporto con la Sicilia «di matrice buia», perché questa terra è «madre di incendi, di campi neri, del Mediterraneo che silenzioso ha inghiottito e inghiotte, di civiltà fantasmatiche ormai arcaiche, di pali del telefono che ardono nottetempo nella strada che collega Butera a Gela, di uno scirocco ossidrico che devasta». Nel Cimitero e il coniglio leggiamo:
Sono senza amore, un cristiano notturno senza amore. Le stelle divorano buio. Prima o poi il buio morirà. E non vedremo. Non vedremo. Sono solito pensarlo soprattutto quando mi soffermo davanti al ristorante cinese, Il Naviglio, sul ponte di Corsico, prima di raggiungere il cimitero.
Corsico compare in diversi racconti, e se ripercorriamo le interviste rilasciate dall’autore sappiamo che è un luogo che ha vissuto nel periodo in cui ha frequentato l’università a Milano, popolato di figure notturne che animano i suoi racconti, come il guardiano del cimitero, gli abitanti del quartiere o i becchini. Anche tra le pagine di Stelle ossee, come nella realtà che ricorda Labbate, il cimitero di Corsico si trova vicino a un asilo nido, e questo diventa lo spunto per una riflessione sulla morte:
Mi fermo. Le mura che separano il cimitero dalle vie cittadine nascondono, in mezzo, un parco e un asilo nido. Cosa vuol dire vedere la morte da bambini?
In queste pagine la notte e il buio sono rischiarati spesso dalla luna e dalle stelle: «La luna piena permetteva alle ombre di uscire dai loro corpi», scrive poi: «Ero anonimo. Lo è chi rincasa durante la notte. In fondo, io, la luna e tutti i pazzi che spacciano le loro ombre alle passeggiate… siamo soli». E in Passeggiata per la defunta Labbate racconta di un ragazzo a cui è stata appena annunciata l’imminente morte della nonna e della sua corsa verso di lei, nella disperazione, un motivo autobiografico.
Proprio la sparizione, l’assenza di persone amate (perlopiù l’amata, la genitrice, la nonna) è uno dei temi più importanti su cui insiste l’autore, nello Scuru come in questi racconti, in cui i personaggi perdono i propri cari. In Buio sotto il letto, un quarantenne passa la notte sotto al proprio letto, dove può ancora fingere di avere diciotto anni e riuscire a vedere i suoi genitori da morti, che lo esortano a vivere; ma non riesce, vinto dal lutto: nei racconti di Labbate la morte dei propri cari lascia chi resta in una cupa disperazione, chi ha perso qualcuno che ama diventa irredimibile. È in questo racconto che Labbate evoca le immagini di un pittore dalle tele inquietanti:
Nel buio ne avrò sempre diciotto, di anni. Papà, prima di mostrarsi a me, si fa vedere sottoforma di candela, mamma nella forma di un quadro che è malinconico, come quelli di Léon Spilliaert.
Léon Spilliaert, Autoritratto, 2 novembre |
Come anche nello Scuru, dove la religione ha un ruolo fondamentale nell’immaginario del protagonista e nella sua vita, anche nei racconti diventa un motivo dominante: sebbene Dio sia immanente in tutte le cose, la fede in Labbate non è salvifica, è vissuta in modo morboso e si fa tormento; in Case incendiate il protagonista dà alle fiamme alcune abitazioni per aver perso i propri cari in un incendio che ha spazzato via la sua dimora:
In noi germinava da tempo il proposito di bruciare gli alberi. Sin da piccoli li abbiamo odiati poiché ci cresce la mela che è stata rappresentazione del peccato originale. […] La nostra attività metempsicotica divenne un’ossessione, passavano gli anni e continuavamo a ricercare e incendiare tutte le case d’America che si mostravano, per il loro aspetto e per le famiglie che le abitavamo, più vicine alla solitudine di un uomo mistico che incontra Dio.
La lingua si fa meno elaborata che nello Scuru, senza un ricorso così intenso al dialetto, ma è sempre evocativa, ricca di parole che rendono appieno l’atmosfera scelta dall’autore: necroforo, lapidi, ossame, diavolo, necrologia, corvo, santino, ombre.
Stelle ossee, con i suoi racconti oscuri, è una raccolta preziosa per chi sia curioso delle tessere che compongono l’universo narrativo di Labbate, per chi voglia saperne di più del suo immaginario e della sua lingua, una voce unica e riconoscibile nel panorama editoriale contemporaneo.
Lorena Bruno
@Lorraine_books