In Sardegna non c’è il mare.
Viaggio nello specifico barbaricino
di Marcello Fois
Laterza, 2008
pp. 129
9,00 euro
È possibile riferirsi alla Sardegna senza pensare al mare? Ovviamente no, se è vero che almeno dal secondo dopoguerra l’isola al centro del Mediterraneo è divenuta sinonimo di grandiosa bellezza costiera e agognato turismo balneare. E ovviamente si, se è altrettanto vero che la sua dote di spiagge, calette e grotte è pur sempre la frastagliata cornice di un quadro più interno, non meno profondo degli abissi circostanti, fatto di roccia e di montagna. Stando così le cose, quello di Marcello Fois non è un paradosso: In Sardegna non c’è il mare. Ma anche se nella Sardegna “di dentro”, e più precisamente in quella Barbagia di cui lui stesso è originario, non ci sono il ritmo dell’onda e della risacca, il cuore “di pietra” di questa regione d’Italia ha battuto a lungo, e forse ancora a sua volta batte, al ritmo ipnotico di altri stereotipi.
Edito da Laterza quasi un decennio fa, il volumetto scritto da Fois per accompagnare il lettore in un Viaggio nello specifico barbaricino (come da sottotitolo), si rivela ancora attualissimo e per vari aspetti illuminante. A giocare a favore dell’autore è, con tutta evidenza, proprio il suo personale identikit, che lo vuole contemporaneamente “indigeno” e outsider, nativo della stessa città (Nuoro) che nel 1871 diede i natali al Premio Nobel Grazia Deledda, eppure da decenni “sardo d’oltremare”, con casa a Bologna. La condizione ideale, in effetti, per raccontare luoghi (fisici e mentali) esperiti dapprima e a lungo in prima persona, e osservati poi dal punto di vista del non-più-residente: uno sguardo critico, dunque, proiettato oltre il rassicurante orizzonte del proprio ombelico, nella consapevolezza di come sia necessario spezzare maglie e catene e, viceversa, impossibile recidere definitivamente cordoni e legami.
In virtù di questa prospettiva doppia e incrociata, Fois procede in tre tappe, partendo proprio dalla problematizzazione (più che dalla mera messa in discussione) dei principali Luoghi piuttosto comuni riguardanti lo specifico barbaricino. Ci sono tutti: testardaggine, ospitalità, stanzialità, indole vendicativa, senso eterno dell’amicizia. Prosegue poi per punti chiave, appellandosi a Ventuno parole da un sardo d’oltremare, per comprendere lo scarto tra le accezioni più "ovvie" (nel senso di legate a pregiudizi passati) e i significati più verosimilmente aggiornati (cioè palesati grazie a una messa a fuoco effettuata da una nuova distanza spaziale e temporale) di concetti come Inverno o Folklore, «Balente» o Indipendentismo. In una prosa che interroga parimenti una vulgata comune ma non più credibile e la memoria e l’esperienza personale dell’autore, Fois non è meno critico rispetto al suo specifico professionale: nel dedicare una sezione apposita alla letteratura, contesta il mito e la moda dell’autore isolano quale "cane sciolto", e individua, invece, un primo "canone" essenziale che ha in Grazia Deledda, Salvatore Satta, Peppino Fiori, Giuseppe Dessì, Sergio Atzeni e Salvatore Mannuzzu i riferimenti imprescindibili per la cosiddetta Formattazione – qualcosa di più radicale di una semplice “formazione”, dunque – dello scrittore sardo.
Non-agiografico, non-esotico, non-assolutorio e non-consolatorio, In Sardegna non c’è il mare è, proprio per questo, un libro che “non conclude”: e Non una conclusione, difatti, è il titolo dell’ultima porzione di testo offerta al lettore, nella quale il desiderio di Fois per una Sardegna “migliore” si esprime in una molteplicità di “vorrei” che, a quasi dieci anni dalla prima pubblicazione del volume, non hanno ancora esaurito la loro ragione di esistere e – ed è d’auspicio che sia così – la loro sincera carica desiderante.
Cecilia Mariani