di Lisa Hilton
Longanesi, aprile 2017
Traduzione di Sara Caraffini
pp. 416
€ 16.90
Mi credevo impegnata in un gioco di cui avevo fissato io le regole e invece mi sono addentrata in un altro, iniziato molto tempo prima e di cui non sono riuscita neppure a intravederle, le regole.
Lisa Hilton e la dark lady protagonista dei suoi thriller erotici sono tornate, pronte ancora una volta a destabilizzare i lettori con una storia di desiderio, potere, omicidi ed intrighi, in un avvincente viaggio per l’Europa fra trafficanti d’armi e meravigliose collezioni d’arte. Domina, secondo volume della trilogia iniziata lo scorso anno con il discusso Maestra è, ancora una volta, un thriller avvincente in cui non mancano spunti di lettura interessanti, ma che non convince fino in fondo, a partire dalla trama stessa: senza dubbio molto cinematografica – facile immaginare una futura trasposizione dei romanzi di Hilton – in un susseguirsi caotico di location suggestive in giro per l’Europa tra Venezia, Ibiza, Belgrado e una tensione narrativa crescente abilmente costruita, personaggi ambigui, ricatti, trafficanti d’armi, droga e sesso, rancori, fantasmi dal passato e nuovi pericolosi giochi di potere in cui Judith, bella e spregiudicata, si trova coinvolta, consapevolmente o meno. Gli omicidi, naturalmente, il “vizio” segreto di Judith, e la passione bruciante per l’arte, che è pura bellezza e devozione, questa volta intorno al genio di Caravaggio.
Insomma, anche in questo caso la sovrabbondanza – apparentemente la bestia nera del romanzo contemporaneo – rischia di soffocare la storia, cliché – i pericolosi oligarchi russi, davvero? – , digressioni e dovizia di particolari appesantiscono la trama ma, soprattutto, tendono a mettere in ombra gli aspetti più interessanti e provocatori della vicenda ideata da Hilton. Domina è senza dubbio un buon romanzo d’evasione, ma è un vero peccato che in parte tradisca il potenziale che l’avrebbe reso qualcosa di più: mancano, rispetto a Maestra, il sapiente gioco di provocazione che destabilizzava il lettore, l’attenta costruzione di personaggi ambigui, dalla psicologia complessa, le scene disturbanti, la rabbia latente, un generale piacere di trovarsi di fronte ad una storia che non aveva paura di rappresentare gli aspetti più oscuri e complessi di un mondo dominato dalla brama di potere, dal desiderio, corrotto e disturbante, in cui solo l’arte era bellezza, assoluta e pura. In questa seconda prova, naturalmente, tornano molti aspetti del romanzo precedente, ma sembra abbiano perso in parte la loro forza provocatoria. Resta, bellissima e crudele, Judith: ma, ancora, è ben lontana dalla dark lady protagonista di Maestra, che tanto aveva affascinato e scatenato polemiche per quell’immagine di femminilità provocatoria, oscura, disinibita e forte. In Domina, Judith rivela invece tutte le sue fragilità e contraddizioni: Hilton costruisce un personaggio femminile dalla psicologia complessa, affascinante, ma che poi delude tentando di oggettivarne le scelte mediante flashback su un passato di abusi, colpe, miserie. Scatta in questo modo un’improvvisa e inattesa empatia con la protagonista, come non era possibile in Maestra, che improvvisamente siamo portati ad immaginare vittima lei stessa di quel mondo corrotto a cui risponde con scelte estreme che ora, tuttavia, appaiono sotto una luce nuova. È un antieroe più rassicurante e per questo, a mio avviso, meno riuscito. Insinuare traumi e fantasmi di un passato con cui non è mai venuta a patti e spingere il lettore di conseguenza ad avvicinarsi con maggior partecipazione al personaggio, sono un punto debole della storia, cedere al buonismo ad ogni costo allontana dal carico di provocazione ed originalità che erano la forza invece del primo romanzo.
Nonostante qualche incertezza e cambio di prospettiva, tuttavia, anche questa volta Hilton costruisce un thriller apprezzabile, nel cui finale si proietta verso il terzo, conclusivo capitolo della storia di Judith. Si conferma il talento dell’autrice nella resa dettagliata di ambienti e luoghi, che appaiono vividissimi, ricchi di dettagli puntuali, pronti a fuoriuscire dalla pagina scritta: tralasciando una certa ossessione con cui vengono troppo frequentemente citati brand e dettagli dell’abbigliamento – un particolare tuttavia che riflette la stessa ossessione reale, nella società contemporanea, per tutto ciò che riconduce immediatamente ad un preciso status – le descrizioni dei luoghi in cui la vicenda si svolge riescono a catturarne atmosfere, suoni, odori, dai vicoli di una struggente Venezia ai fabbricati covo di artisti e performer nella fredda Belgrado. E così gli ambienti, con lo sguardo di Judith che indugia su arredi, particolari, luci e colori, da castelli bunker ad appartamenti finemente arredati, rifugio dalla violenza del mondo.
Risaltano, per bellezza e contrasto con il carico di oscurità e violenza della storia, le descrizioni di dipinti ed opere d’arte, l’incanto che esercitano su Judith:
Mi mancava non solo l’iniziale brivido della bellezza ma anche il privilegio di passare tempo fra i quadri, l’emozione quasi erotica suscitata dalle loro lente rivelazioni, il modo in cui ci si poteva perdere in un dipinto, guardarlo e riguardarlo e restare ogni volta commossi, turbati o sbalorditi. La mia prima visita alla National Gallery, quando ero una scolaretta, mi aveva cambiato la vita e da allora i quadri erano le sole cose che non mi avessero mai deluso.
Le scelte artistiche non sono casuali naturalmente: se nel primo romanzo era soprattutto il lavoro di un’artista straordinaria come Artemisia Gentileschi – pittrice molto amata da Hilton stessa – a svelare qualcosa del carattere della protagonista, in questo caso è Caravaggio, il genio, l’intraprendenza ed infine gli aspetti più oscuri della sua vicenda biografica, la colpa, la fuga. Un artista geniale, un personaggio controverso, «convinto che di fronte alla bellezza si possa perdonare quasi tutto, perfino l’assassinio». Hilton, da esperta della materia, nelle suggestive riflessioni intorno ai dipinti e al mondo dell’arte regala ancora una volta al lettore pagine molto intense: dai giochi di potere e corruzione di una grande casa d’aste, ci conduce ora tra piccole, raffinate, gallerie, collezionisti senza scrupoli, il mondo underground degli artisti, il trash e l’orrore come forma d’espressione. L’arte, la bellezza, e per contro il ritratto di un mondo corrotto, decadente: feste sempre più estreme, droga, sesso, umiliazioni, il denaro che compra e rovina ogni cosa, ogni rapporto. È l’immagine di un’umanità dolente, priva di valori e sentimenti reali.
Solo Judith, per assurdo, sembra provare davvero qualcosa, vedere almeno la bellezza di un dipinto, struggersi per le atmosfere decadenti di una notte veneziana. È il solo sentimento che non può sopprimere. Molto tempo prima ha imparato infatti a privarsi di tutte le altre emozioni, ad ignorare i bisbigli, costruirsi una corazza per sopravvivere e andarsene:
Un’armatura protegge davvero solo se è invisibile, questo si era rivelato lo scoglio più duro. Non soltanto studiare e passare gli esami, ma non perdere mai la convinzione di poter vincere. Andarmene dal misero quartiere in cui ero cresciuta. Non lasciarmi fagocitare dallo squallore della vita di mia madre. Resistere alle ironie, agli insidiosi bisbigli sibilati ogni giorno alle mie spalle lungo i corridoi: «puttana», «stronza», solo perché volevo di più.
Gli uomini, del suo passato o quelli che inconsapevoli del pericolo ne incrociano ora la strada, da cui non lasciarsi dominare, mai, soprattutto con il ricatto dei sentimenti:
È così che ci domano, perché quando hai quindici anni e non hai visto niente e non sei andata da nessuna parte anche il minimo accenno di quel potere ti travolgerà, ti convincerà che tutte le canzoni pop dicono la verità, che quello è amore e non importa se è coercizione o peggio. […] Ma io non ero così. Nemmeno allora, non sono mai stata così. L’amore non faceva per me. Avevo intenzione di scoprire cosa potevo far fare agli uomini e un giorno lo avrei sfruttato.
Il sesso, naturalmente, è presente anche in questo romanzo ma in misura minore in confronto a Maestra, rimane sullo sfondo, rivelatore della psicologia della protagonista ma meno invadente, l’indipendenza e l’avversione di Judith a legami e regole un aspetto sempre molto intrigante. Un’antieroina dai tratti meno oscuri rispetto a Maestra, ma ancora per certi versi capace di destabilizzare il lettore, con la sua sessualità dominante, le azioni violente, la morale distorta. E se la fredda determinazione di Judith sembra via via andare scemando, le emozioni prendere il controllo sulla ragione, ci auguriamo che alla fine il personaggio non venga del tutto snaturato nel nome di una tendenza al buonismo che francamente ha un po’ stancato.
Quel pomeriggio freddo, quel silenzio interminabile, quella prima creatura morta sotto le mie mani.
Ma per fortuna resta difficile immaginare per Judith un tradizionale happy ending.
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