di Paolo Maurensig
Adelphi, 2015
pp. 200
€ 18
Non ritengo casuale che Paolo Maurensig sia entrato nel
catalogo Adelphi. Credo che un raffinato
goriziano, nato del cuore della seconda guerra mondiale, di mestiere
scrittore, ne debba far parte vista l’attenzione che la casa editrice milanese
dedica alla mitteleuropa, alla letteratura russa ed ebraico-europea. Se
potessimo divertirci a creare ipotetici rimandi letterari fra Paolo Maurensig e
altri autori apprezzati da Roberto Calasso, mi verrebbero in mente, a
bruciapelo, Joseph
Roth e Sándor Márai.
“Teoria delle ombre” è un romanzo intrigante con due
protagonisti: il primo è Alexandre Alekhine, campione del mondo di scacchi che
la mattina del 24 marzo 1946 viene trovato morto su una poltrona, con un cappotto
addosso, in una stanza dell’Hotel do Parque, a Estoril, dal cameriere
incaricato di portargli la colazione. Il cameriere è un ragazzino portoghese. Il
secondo protagonista sono proprio gli
scacchi, un gioco che non fa prigionieri perché è l’esatta imitazione della
guerra. «Lo sport più violento che esista» a giudizio di Garri Kasparov,
non uno qualsiasi.
Il medico legale liquida la morte di Alekhine come causata da asfissia. Ma Maurensig non
crede a questa versione e così s’inventa un personaggio, anch’egli scacchista, che
decide di riaprire il caso. Lo aiuterà a svelare il mistero, incidentalmente,
il cameriere oramai anziano e in pensione nella sua Lisbona, che nel corso della
vita ha imparato a leggere i particolari e a cogliere l’importanza del non
detto, del sussurro, delle mezze parole.
Alexandre Alekhine, intanto, è stato un personaggio
controverso e oscuro, membro della polizia criminale sovietica, forse dell’intelligence
britannica, ma soprattutto, per una serie di circostanze, fiancheggiatore del
nazismo e ospite di riguardo del governatore della Polonia, Hans Frank. Ecco le
ombre del titolo. Alexandre Alekhine è
un uomo avvolto in un cupo riserbo, inevitabile per un campione del mondo di
scacchi visto che dal momento in cui prende avvio una partita, con la prima
mossa del bianco, maneggiare i pezzi impone un silenzio peggiore di una regola
monastica e soprattutto un’estenuante concentrazione. In una partita si
alternano aggressività, sofferenza, anche fisica, calcolo delle probabilità, desiderio
di annientamento dell’avversario. Tutte caratteristiche che emergono
all’ennesima potenza da un campione che ha reso gli scacchi una vocazione, per
usare un linguaggio weberiano.
Alekhine è la ferocia della contraddizione fatta persona, a
partire dal nome. Alexandre
Alekhine è infatti la traslitterazione
francese di Aleksandr
Aleksandrovič Alechin. Moscovita. Quattro
matrimoni, figli, dissidente, traditore, alcolizzato, finito nel torbido
Portogallo di Salazar dove aspetta di sfidare in un’attesa che lo consuma Michail
Botvinnik, anch’egli russo di nascita, ma sovietico fino al midollo. Per di più
ebreo. Ma al di là di uno sfidante scacchista, Alekhine si è fatto
troppi nemici e ha deciso di affrontarli nella più totale solitudine. Una mossa azzardata, verrebbe da dire. Anche se compiuta
da un giocatore invincibile.
Mentre la tenaglia dei servizi segreti si stringe, Alekhine
non è nella condizione migliore per dare scacco matto al destino. Le ombre del suo passato tornano a
perseguitarlo quando un mittente anonimo gli fa recapitare un busta con
alcuni ritagli di giornali che parlano del processo di Norimberga. E ritraggono
Alekhine accanto a Frank. In una foto sfocata. A prima vista popolata di ombre,
per l’appunto.
Poi appare Goebbels. In un’ulteriore immagine da cui
nascerà la parte più kafkiana del libro, dove il passato costringe Alekhine ad
ammettere, più a se stesso che al resto del mondo, di aver giocato per la Germania nazista, di
essere rimasto inerme dinanzi alla condanna di un campione polacco colpevole di
aver messo piede in un locale Juden verboten, di avere scritto articoli per dimostrare la
superiorità del gioco ariano rispetto alla scuola ebraica. Il tutto per restare in vita.
Alekhine è il
Male? Diciamo che ne è la sublimazione. La sua è senza dubbio una vita
dissoluta e sprezzante, ma la sua concezione di razza eletta e superiore, ad
esempio, non è tanto la conseguenza di tesi naziste quanto piuttosto un’analisi
dei difetti, a suo modo di vedere, dei giocatori ebrei. O meglio, della scuola scacchistica
ebraica. L’amicizia con Frank dipende dal fatto che il gerarca stesso è un
giocatore. Gli ammicchi al nazismo servono inoltre a salvare la moglie rimasta
in Francia e a rischio deportazione. Insomma: i suoi scritti, i suoi comportamenti sono sia interessati, quindi molto
umani, sia conseguenze del suo demone: la scacchiera.
Quando il
personaggio che investiga si mette finalmente sulla pista giusta, Maurensig ha già trascinato noi lettori nella caverna di tutte
le ombre possibili. Adesso non gli resta che darci scacco matto: e lo fa con lo
strumento che sa meglio adoperare. Il
romanzo. Dove si può affermare ciò che in altri contesti suonerebbe inverosimile
e l’immaginazione permette di arrivare a verità nascoste. E cosa si cela
dietro la morte di Alexandre Alekhine? Posso soltanto dire che il finale è, da
una parte, avvincente come una partita a scacchi in venti mosse e,
dall’altra, un’ultima ombra definitiva che sfida perfino la Morte.
p.s. Se questo
romanzo vi appassionerà, ricordo che Paolo Maurensig ha pubblicato per Adelphi anche
“La variante di Lüneburg”, nel 1993. Ci sono sempre pedoni, torri, cavalli,
alfieri, re e regine come metafora della lotta tra il bene e il male. Potete
partire da questo per giungere alla “Teorie delle ombre”. O viceversa. Potete
riguardare “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Insomma, lascio il
privilegio a voi di muovere per primi.
Marco Caneschi
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