Chirù
di Michela Murgia
Einaudi, 2015
pp. 191
Euro 18,50
Il delicatissimo rapporto tra maestro e allievo assomiglia a un corridoio piastrellato di uova “fatali”: per quanta grazia possano avere l’uno e l’altro nel compiere insieme questo attraversamento, qualche guscio finirà comunque con l’incrinarsi prima che l’ipotetico traguardo sia stato raggiunto, e non è mai dato sapere con quali conseguenze. In alcuni casi la schiusa si sarebbe verificata comunque anzitempo, portando alla luce nuove creature giunte a una maturazione non ulteriormente rimandabile; altre volte, invece, sarebbe stato meglio non affrettare le crepe con il peso dei propri passi, pena la fuoriuscita, irreversibile e ferale, di un magma ancora incompiuto (o irrisolto) di pulsioni ed energie. Proprio questa seconda eventualità è quella che si verifica in Chirù, il ritorno al romanzo di Michela Murgia a distanza di qualche anno dal successo di Accabadora.
Il legame tra Chirù ed Eleonora nasce con le premesse sbagliate: nel momento in cui il giovane violinista si rivolge a lei perché gli faccia da mentore, l’affermata attrice di teatro, sulla soglia dei quarant’anni, si ritrova a tradire il giuramento fatto a se stessa tempo addietro, quando aveva deciso che nella sua vita non ci sarebbe stata una quarta esperienza da tutor. Pur consapevole dei rischi, la donna si lascia però convincere, riconoscendo in quel diciottenne ancora acerbo un odore fin troppo familiare di “cose marcite”, che agisce su di lei come un richiamo (una preghiera?) irresistibile. Così, pur turbata e titubante, accetta: anche a questo ragazzo insegnerà tutto ciò che sa, lo educherà a stare al mondo, offrendo alla sua ambizione giovanile il bagaglio di conoscenza che ha accumulato negli anni. Ma se è vero che ogni bravo pigmalione impara sempre qualcosa anche dal peggiore dei suoi protégés, in questo percorso di maturazione e di scoperta Eleonora si ritroverà coinvolta e compromessa alla pari – e forse anche più profondamente, più oscenamente – dello stesso Chirù. L’equilibrio aureo, basato sul tacito rispetto dei ruoli e sulla gerarchia dell’esperienza, verrà progressivamente meno, mentre il dubbio e l’ambiguità si insinueranno a poco a poco in ogni sgualcitura della loro frequentazione, per ragioni che andranno oltre l’implicito rischio dell’attrazione sessuale o del vero e proprio innamoramento. Finché il “figlioccio”, come nella più auspicata e temuta delle ipotesi, non darà prova di avere cinicamente superato la sua “madrina”, quasi riportando sulla linea di partenza colei che si credeva già ben oltre il mezzo del cammin della propria vita.
Come in Accabadora, anche in Chirù Michela Murgia mette al centro le peculiarità di un rapporto a due caratterizzato da una notevole differenza d’età e da un processo istintivo di “adozione” dell’anima, in una Sardegna contemporanea sostanzialmente priva di esotismi ma non meno determinante nell'insieme, soprattutto per quanto riguarda la capacità di annullare o esasperare le distanze tra l'esperta teatrante e il musicista in erba. Se nel romanzo precedente era stata la vecchia Bonaria Urrai a volere con sé la piccola Maria Listru, in questa seconda prova pare di assistere a una sorta di “addomesticamento” reciproco e contraddittorio tra la matura Eleonora e il poco più che adolescente Chirù. E il fatto che questo rituale – anzi: questo “rito” – si svolga su un fondale “ad effetto” come può essere il mondo dello spettacolo non è di alcun aiuto: l’arte non sembra elevare o guarire chi le si affida, anzi ne rivela impudicamente la difficoltà di stare al mondo e il costante bisogno di attuare strategie di mimesi, dissimulazione e straniamento; la necessità, soprattutto, di avere dei maestri a cui riferirsi, a cui tornare, prima che l'abbandono non si configuri come opzione arbitraria o come unica soluzione possibile.
La storia di Eleonora e Chirù, il loro ritrovarsi insieme e riconoscersi l'uno nell'altro, è scandita da una tempistica accidentata, fatta di interruzioni e acceleramenti. E a quanto lascia intendere il romanzo, non c'è incontro tra esseri umani che possa definirsi neutro o rassicurante: soprattutto nelle relazioni sentimentali – dalla famiglia d’origine a quella d’elezione, dall’intendimento amicale o sessuale, per non parlare, appunto, di un tutoraggio artistico ed esistenziale – ogni più pura intenzione, ogni più spontanea fascinazione, si ritroverà presto o tardi a fare i conti con la lusinga del potere che ci si rende conto di avere o subire in rapporto al prossimo. Nella resa di queste dinamiche, lo stile di scrittura dell’autrice è talmente perfetto e controllato da correre in più occasioni il rischio dell’autocompiacimento; un sospetto talvolta acuito anche dall’eccessiva e irrealistica brillantezza di alcuni dialoghi. Una scelta forse non così sbagliata se la si interpreta in relazione alla protagonista femminile; se è vero, cioè, che Eleonora è un’attrice consumata, e che proprio in un eccesso di supervisione ha creduto di esorcizzare il proprio passato e di incubare la propria infelicità presente. Tutto questo, resta inteso, ben prima che Chirù si imponesse dall’altra parte dello specchio, offrendosi a lei come nuovo e indimenticabile limen della sua vita.
Cecilia Mariani
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