Sete
di Roberto Marri
Prospero editore, 2017
pp. 170
cartaceo € 9,90
e-book € 4,99
e-book € 4,99
Romanzo d’esordio snello, ma sorprendentemente efficace, Sete si presenta come un’opera legata a un contesto socio-culturale molto specifico: la vita giovane, non più giovanissima, di un quartiere di periferia in una città del nord Italia, che rimane imprecisata per dare alla vicenda un valore quasi universale. Microcosmo concluso e bastante a se stesso, da cui i personaggi non escono quasi mai, il rione è popolato da un’umanità variegata, che si muove in costante equilibrio tra la tipizzazione e la caratterizzazione individuale. I due protagonisti, Rico e Sanchez, sono due piccoli antieroi del quotidiano, apparentemente sfaccendati, eppure sempre impegnati in qualche attività che per loro riveste la massima importanza; apparentemente superficiali, eppure dotati di una propria etica, che governa tutto ciò che per loro ha qualche valore, si tratti delle partite a calcetto, della costruzione di una casetta abusiva in un terreno pubblico, o dell’allestimento di un “albero della birra”, che tintinna al “tocco delle lattine” vuote e balugina di notte, massima concessione alla poesia in un ambiente fortemente connotato in senso popolare.
I due amici non sembrano avere molto in comune: Rico ha un animo di sognatore, suona continuamente foglie di gelso o una chitarra a cui sono rimaste solo due corde, insegue progetti per lo più irrealizzabili, ha uno spirito inquieto che rifugge da ogni tentativo di stabilizzazione. Sanchez invece è lo scudiero (forse per caso, ma con straordinaria pertinenza, il nome – la cui genesi è in realtà diversissima – evoca direttamente la figura di Sancho Panza), è uno scroccone, un po’ grossolano, con uno spiccato gusto per la trivialità, ma a suo modo leale. Ritratti più volte come una coppia epica, Sanchez e Rico si sentono “in comunione [l’uno con l’altro] come potevano sentirsi solo gli eroi compagni d’armi nelle più grandi battaglie” (10). Eppure questa comunione non è sempre assoluta, perché tra i due sussiste una diversità di fondo, legata al modo di concepire l’esistenza, al loro avvertire talvolta due tipi diversi di “sete”:
[Rico] il suo tempo lo voleva passare così, come aveva sempre fatto, in giro per il quartiere […]. Ogni tanto però il dubbio affiorava e un’inquietudine profonda e senza nome si affacciava tra i suoi pensieri. A quindici, a vent’anni, aveva sempre vissuto in un presente eterno, senza mai fare i conti con il fluire dei giorni, dei mesi e degli anni. Ma lentamente la percezione del tempo era cambiata. Se prima lo aveva riempito soltanto per il gusto di fare quello che faceva ora gli piaceva riempirlo per non lasciare intravedere il vuoto che poteva nascondersi sotto il suo scorrere. Un vuoto che chiedeva risposte e lui le risposte non le voleva e non le sapeva dare. A volte gli sembrava di intuire che sotto quel voto ci poteva essere un qualcosa che gli avrebbe tolto la sete che ogni tanto sentiva, ma sembrava troppo difficile e non era roba per lui pensare così a fondo. […] Era proprio in questo che invidiava Sanchez. Quello era rimasto come sempre. Nessuna domanda lo aveva sfiorato, viveva sempre il presente in una purezza senza dubbi. (21-22)
Attaccato ad un bisogno quasi primordiale, ossessionato dalla sua inestinguibile “sete di birra”, Sanchez non immagina nemmeno che possa esistere qualcosa al di fuori del quartiere e trascorre la sue giornate bighellonando intorno all’Havana bar, sorta di correlativo oggettivo dell’umanità che lo abita e perno della narrazione. Rico, al contrario, nella sua cecità autoimposta, nel suo rifiuto di uscire dall’eterna seppur fuggevole giovinezza a cui si abbandona, incontra una serie di pietre d’inciampo: il restauratore fallito Angelo, Marta, il prete, la bella Irene. Caratteristica comune a tutti questi personaggi è quella di rappresentare un ponte verso l’esterno, di offrire una prospettiva inedita – e quindi per lo più sgradita – sulla vita che si può condurre quando si accetta di crescere. A partire dal modello iniziale, rappresentato dal vago ricordo di un libro letto a scuola e di un ragazzino che si era arrampicato su un albero per fuggire dal mondo (il lettore, al contrario del protagonista, riconosce immediatamente l’eco calviniano), il pensiero di Rico matura in un desiderio di innalzarsi al di sopra della propria condizione, di cercare di cambiare le cose.
Sete, lettura adatta a un pubblico giovane in cerca di spunti di riflessione, colpisce fin da subito per la scorrevolezza e l’ironia. Non manca mai però, quasi inavvertito, un sottofondo drammatico, un’idea che scorre tra le pagine e che riecheggia inquietante in sordina: il sospetto, che viene al lettore come ai personaggi, che esista una sorta di determinismo ambientale al quale nessuno può sfuggire, se non a costo di grande fatica, e che chi non possiede le caratteristiche caratteriali adeguate in termini di forza e determinazione sia destinato a non farcela. Solo superficialmente il testo di Roberto Marri potrebbe sembrare un romanzo di formazione, poiché l’adesione a una determinata realtà impedisce ai protagonisti qualsiasi fuga che non sia provvisoria. Mentre ci si avvicina alla fine, il lettore – che fa spassionatamente il tifo per Rico e Sanchez – non sa più cosa augurare loro: se di riuscire una buona volta a diventare grandi, o di restare gli eterni eroi-bambini che vivono di amicizia, sogni e grandi avventure.
Carolina Pernigo