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Una donna insolita: un ritratto feroce di editori e intellettuali

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Una donna insolita
di Rose Macaulay
Astoria Edizioni, 2016

Traduzione di Simona Garavelli

pp. 246
17 euro



Satira: genere letterario che ritrae con intenti critici e morali personaggi e ambienti della realtà e dell’attualità, in toni che vanno dalla pacata ironia alla denuncia, all’invettiva più acre.

Dissacrazione: L’azione e l’effetto del contestare il carattere sacro, religioso o comunque tradizionale di un’istituzione, di una consuetudine, di una posizione di privilegio, attraverso il chiarimento della sua formazione storica, o proponendone un’interpretazione più realistica.

Per scrivere di Una donna insolita, romanzo di Rose Macaulay del 1926, si deve necessariamente prendere le mosse da queste due definizioni che ben accolgono al loro interno questo libro particolare, differente, originale.
La giovane Denham Dobie, già orfana di madre, è costretta a lasciare la famiglia e la sua terra d’origine, l’Andorra, per trasferirsi a Londra, insieme a parenti materni, quando anche il padre viene a mancare. La nuova cornice cittadina offre alla protagonista la possibilità di entrare a far parte di un contesto borghese e intellettuale, fatto di editori e scrittori, che si autoalimenta di scandali, pettegolezzi, eventi sociali, dibattiti vivaci e, all’apparenza, colti.
In questo nuovo ambiente, tutt'altro che affascinante ai suoi occhi, la giovane, abituata alla libertà e alla vita “selvaggia” della sua terra natìa, inizia presto a sentire l’estremo peso e il radicale non-senso di abitudini e costumi sociali: le ipocrisie, l’abbondanza (di parole, di eventi, di regole comportamentali), la folla costituiscono per lei le sbarre di una prigione che sembra stringersi sempre più intorno al suo spazio vitale, facendole desiderare di romperle, di uscire fuori. Una bramosia che nemmeno la passione amorosa riesce a spezzare, poiché si rivela anch’essa, per la giovane donna ribelle e “primitiva”:
la grande emozione addomesticatrice, forse l’unica emozione addomesticatrice. […]
L’amore finiva per spezzarti, per metterti al tappeto, ti imprigionava i piedi ancora liberi nei ceppi. (p. 240)
Attraverso gli occhi di Denham, dunque, siamo portati a guardare la realtà da una prospettiva illuminante, che mette in discussione ogni rituale, ogni consuetudine sociale, persino la più scontata, come la conversazione tra conoscenti, o, come la definisce la protagonista: «quella faccenda del parlare». All’improvviso, si palesa davanti a noi la totale mancanza di senso di tutto il nostro mondo, la sua ridicolaggine, persino la drammaticità che questo reticolo di regole e dettami comporta:
Il teatro era piccolo e sembrava che i Gresham conoscessero tutti i presenti.
Non riesco a capire perché importi così tanto chi c’è qui, pensò Denham. […] È lo spettacolo quello che conta. Chissà perché si interessano tanto a chi altri lo sta vedendo. (p. 50)
Parlare: formare con l’aria, mediante il contatto tra lingua, denti e palato, un flusso di parole, parole, parole. Tenacemente si applicava a questo curioso fine, come fosse una qualunque altra arte qualificata e complessa. (p. 121)
Probabilmente, non si può parlare in senso pieno di satira alle bizzarrie che divengono costumi sociali, poiché manca alcun intento morale e persino alcuna forma di alacrità nelle parole e nel pensiero della giovane Denham: ella per un periodo tenta instancabilmente di adeguarsi a quella che considera «l’esistenza superiore», poi, progressivamente e quasi inconsapevolmente, sceglie di mollare il colpo, di seguire il proprio istinto, di rifiutare dogmi che le risultano assolutamente privi di senso.
È tuttavia profondamente dissacrante il suo modo di presentare i fatti, gli accadimenti, di porre un punto interrogativo sopra ogni cosa, anche la più piccola, che si tende a dare per scontata.
Persino l’amore, in questo ritratto umano insolito eppure profondamente comprensibile, non si salva, non offre una via di fuga, come abbiamo detto: è solo un altro elemento che deve essere vissuto all’interno di un sentiero già tracciato e ben delimitato. Non c’è spazio per la spontaneità, per i colpi di testa. In questo romanzo, l’amore viene freddamente spogliato di ogni carattere romantico, per mostrarne il suo aspetto di drammatica posa, come la statica rappresentazione di un’emozione che rimane superficiale, pur mantenendo la sua convinta, sincera autenticità. L’amore è solo una bella occasione sprecata, una promessa non mantenuta, il simulacro di una libertà ingannevole, la dorata prigione abbellita d’orpelli del tutto inutili.
Cieco e piangente, il loro amore cercò a tentoni una via d’accesso e si allontanò sconfitto. (p. 176)
Tutta questa insistenza sulle relazioni personali… non è altro che una malattia. L’amore è una malattia. Ma curabile. Passa. (p. 184)
Si può leggere Una donna insolita concentrandosi sul preponderante lato divertente che emerge da questo ritratto impietoso di una società inglese degli anni Venti che nulla ha di diverso da quella odierna, soprattutto se si considera i tanti, lapidari, illuminanti riferimenti al mondo dell’editoria e del giornalismo culturale:
Il romanzo di Arnold sarebbe stato pubblicato a febbraio dalla sua casa editrice. […] Arnold sperava che avrebbe provocato un certo fermento, che avrebbe persino dato vita a un “dibattito”, che per un editore è la sorte ideale di un libro, sebbene nessuno l’abbia mai visto accadere. (p. 103)
(Quanta lampante attualità in questo passaggio del testo, se si guarda ai recenti botta e risposta di intellettuali sui giornali “di cultura”, in merito all’ultimo romanzo di Walter Siti: …ma è realmente un dibattito? O non è forse un solitario scambio di opinioni tra sedicenti menti autorevoli, oltre il quale c’è l’assordante silenzio della stragrande maggioranza della popolazione, anche di quella parte di cittadini che compra regolarmente libri? Ai posteri (forse) l’ardua sentenza…)
“Quale libro?”chiese Humphrey, annoiato. “Ah, ora ricordo. Sì, ricordo. Avrei preferito che uscisse mentre ero via. Ora mi toccherà vedere le recensioni.”
“Oh, saranno positive” lo incoraggiò Peter. “Non potranno non esserlo, visto che scrivi per metà dei giornali che ti recensiranno.” (p. 44)

Le recensioni negative sono scritte dai nemici: è una delle leggi del mondo letterario. Una legge un po’ meno scontata è che quelle positive siano scritte dagli amici: dopotutto, perché un critico imparziale non dovrebbe davvero ammirare un libro? Se dovesse infierire, si dimostrerebbe non imparziale; ma le lodi sono tutt’altra cosa. (p. 118)
Il lato meno divertente, più tragico e riflessivo di questo libro è invece rappresentato dalla vicenda umana di Denham, laddove la si guardi al di là del buffo ritratto che fa di un mondo intellettuale ipocrita. Tutto ciò che accade a Denham è tragico: il trasferimento per la morte prematura del padre, la vita a Londra permeata dal costante senso di non essere all’altezza, un matrimonio che spegne presto la fiamma della passione e si rivela bonaria coercizione, addomesticamento. Persino la vicenda, dura, spietata, della gravidanza indesiderata e interrotta: quando la giovane rimane incinta, dichiara con candore di non volere quel bambino, di non aver alcuna intenzione di modificare le sue abitudini fatte di passeggiate, sport all’aria aperta, fatica, per preservare la vita di un figlio non cercato. Tutto questo, che fa tornare alla mente, sebbene con vaghezza, la giovane Oriana Fallaci di Lettera a un bambino mai nato, può apparire feroce, ma è assolutamente coerente col personaggio; si scorge in tale atteggiamento non la cattiveria ma la genuina sete di libertà di Denham.

In Denham è piuttosto semplice rinvenire anche un carattere autobiografico dell'autrice: nata in Inghilterra alla fine dell'Ottocento, Rose Macaulay trascorre l'infanzia in Liguria, a causa della salute cagionevole della madre, che necessita dell'aria salubre della costa. Qui, la giovane Rose conduce un'esistenza libera, all'aria aperta, tra bagni in mare e avventure nella natura. Il ritorno in terra inglese, durante l'adolescenza, sarà un colpo durissimo per una ragazza non abituata alle regole della civiltà borghese. È naturale, dunque, rinvenire in Denham l'alter ego che consente alla scrittrice di esprimere un'inesorabile e lucidissima critica contro tutti gli archetipi del vivere civile.

Due sono i riferimenti letterari che tornano alla mente in questa lettura: da un lato l’immenso Luigi Pirandello, de Il Fu Mattia Pascal (per quella sete di libertà solitaria che accomuna Mattia e Denham) e di Uno, nessuno, centomila, laddove la rivelazione delle maschere che la società impone all’individuo rende manifesta l’inconsistenza e la costrizione esercitata dall’apparato civile;  dall’altro, Ira Levin de La fabbrica delle mogli (da cui è stato tratto il film omonimo del 1975 e quello più recente, La donna perfetta, con Nicole Kidman, del 2004), nel cercare a tutti i costi di rendere una giovane, affascinante, vitale e ribelle una donna “domestica”, perfetta padrona di casa, madre di famiglia, moglie devota…
Al prezzo, però, di rubarle l’anima.

Barbara Merendoni