Guardati dalla mia fame
di Milena Agus e Luciana Castellina
Nottetempo, 2014
pp. 207
Euro 15,00
Guardati dalla mia fame, il titolo del libro scritto a quattro mani da Milena Agus e Luciana Castellina, ha la solennità dell’ammonimento che allude alla minaccia di un “altrimenti…” sottinteso e mal nascosto. In questa storia, a guardare le cose dal punto di vista dell’affamato e del denutrito, c’è chi non si è protetto abbastanza dal tormento dei suoi simili per il pane quotidiano, e ha meritato di pagarne le conseguenze con la vita. Ma c’è anche chi, a rovesciare la prospettiva, non immaginava che la pancia altrui fosse così insopportabilmente vuota, e non capisce come l’equivalenza tra privilegio di nascita e plateale ingenuità possa essere pretesto valido per il reato di omicidio. Dove sta la ragione? E dove il torto?
Italia, Puglia, immediato secondo dopoguerra. In una regione drammaticamente spaccata dalle contraddizioni politiche e sociali, dalle disparità economiche e culturali, sull’orlo (o già sul fondo più nero) di una vera e propria guerra civile, nella prima settimana del mese di marzo dell’anno 1946 si consuma un linciaggio a discapito di una famiglia della casta agraria. A cadere sotto la furia cieca di una folla di braccianti che attende l’annunciato comizio del politico e sindacalista Giuseppe Di Vittorio sono due delle quattro sorelle Porro, dal cui palazzo, antistante la piazza, pare siano partiti degli spari: evidentemente provocatori, oppure del tutto casuali. Poco importa: la miccia della massa è accesa da tempo immemore, la sua fame – di pane, di vendetta, di giustizia – brucia le viscere oltre ogni ulteriore sopportazione. Luisa e Carolina Porro, sospettate di tenere delle bombe nelle borse, saranno uccise senza pietà, e i loro corpi brutalizzati. Vincenza e Stefania, invece, sopravvivranno alle violenze e agli insulti della calca, e saranno segnate per sempre dalla disgrazia.
In Guardati dalla mia fame la medaglia è descritta da entrambi i lati: al lettore il compito di giudicare la brillantezza e le opacità delle storia (e della Storia). Nella prima parte del volume Milena Agus, con la sua inconfondibile attenzione alle piccole cose, gliela racconta dal punto di vista di Stefania, immaginaria amica e confidente delle sorelle Porro, così diversa da loro da non capacitarsi delle loro ingenuità e allo stesso tempo indulgente, innamorata della loro bontà semplice di bambine cresciute. Nella seconda parte, di contrappunto, Luciana Castellina ricostruisce con rigore il contesto postbellico pugliese e lo specifico della vicenda di cronaca, mettendo nero su bianco l’oggettività vergognosa (e dolorosa) di un meridione d’Italia lontano appena una manciata di decenni. E alla fine, si è combattuti. Perché se è impossibile negare, o anche solo minimizzare, il dramma atavico della categoria degli oppressi in questione, è altrettanto difficile provare un astio degno di questo nome per la mitezza di quattro donne che, pur ricche, vivevano da povere, tra casa e chiesa, mature eppure pudiche al punto da coprirsi la bocca per ogni allusione e da chiamare le mutande “i primi” e i reggiseni “i secondi”.
Gli spunti di riflessione offerti da Guardati dalla mia fame sono molteplici, e tutti devastanti nella loro triste attualità. E mentre alcune conclusioni si traggono con amarezza sia tra le righe della fiction che tra quelle dell’analisi storica, c’è almeno un pensiero esplicito che vale la pena trascrivere per intero, perché sia ricordato a sua volta come monito. Milena Agus lo affida all’io narrante, e la sfida sta tutta nel tentativo di una sua non condivisione:
«”Il mondo è così com’è,” dicevano le Porro, con un leggero gesto delle braccia e un’educata alzata di spalle. “Che possiamo farci?” E questo atteggiamento l’aveva sempre fatta uscire dalla grazia di Dio. Invece forse avevano ragione loro: il mondo è così com’è e non cambia mai davvero niente, si scambiano soltanto i ruoli. E magari in futuro gli ebrei avrebbero fatto ad altri quello che i nazisti avevano fatto a loro, i poveri avrebbero schiavizzato i ricchi, le persone educate, rifiutandosi di dire parolacce, o di mangiare con le mani, o di ruttare in pubblico, sarebbero state prese in giro. Gli omosessuali avrebbero emarginato chi trovava attraente l’altro sesso. Le donne avrebbero comandato a bacchetta i maschi. Tutto sarebbe cambiato in questo mondo, tranne la sostanza».
Cecilia Mariani
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