Avvicinarsi all'universo di Emmanuela Carbè è come camminare su un pavimento ricoperto
di specchi: si cammina piano, passo dopo passo, per non rompere la grazia lieve della sua scrittura, e ad ogni movimento, in ogni pagina, ti sembra di scorgere, con la coda dell'occhio, una parte del tuo cammino. Perché questa autrice ha lo straordinario talento di raccontarci cose che non sapevamo di provare: parlando di sé, parla a tutti noi.
L'unico viaggio che ho fatto (Minimum Fax, 2017 - già recensito da Critica Letteraria) è un'opera unica nel suo genere, con cui la Carbè conferma quel limpido talento già messo in luce dalla sua opera precedente, Mio salmone domestico (Laterza, 2013): la sua scrittura, raffinata e efficace, e la sua capacità di introspezione, rendono la sua voce unica. Chiudendo il libro, non possiamo fare altro che augurarci che Carbè non perda un briciolo di quella grazia lirica che la contraddistingue, per regalarci altre opere di questo livello, perchè - possiamo dirlo - abbiamo davvero bisogno di libri così.
L'unico viaggio che ho fatto (Minimum Fax, 2017 - già recensito da Critica Letteraria) è un'opera unica nel suo genere, con cui la Carbè conferma quel limpido talento già messo in luce dalla sua opera precedente, Mio salmone domestico (Laterza, 2013): la sua scrittura, raffinata e efficace, e la sua capacità di introspezione, rendono la sua voce unica. Chiudendo il libro, non possiamo fare altro che augurarci che Carbè non perda un briciolo di quella grazia lirica che la contraddistingue, per regalarci altre opere di questo livello, perchè - possiamo dirlo - abbiamo davvero bisogno di libri così.
1. Cara Emmanuela, innanzitutto grazie per aver accettato di rilasciarci quest'intervista, è un vero piacere. Cominciamo dalla domanda più semplice: come nasce questo romanzo? Ovvero, come ti è venuta l'idea di mettere su carta un nuovo racconto, a quattro anni di distanza dal fortunato Mio salmone domestico (Bari, Laterza, 2013)?
«Grazie. Credo di non riuscirmi a spiegare se inizio a dire che l’idea di un libro su Gardaland è guarda un po’ partita da una visita a Gardaland. Che ormai odio, ho nominato quel parco così tante volte che per distanziarmi lo chiamerei Quella cosa lì. Mi sono trovata, a luglio di qualche anno fa, in Quella cosa lì. In quel periodo dovevo scrivere una cosa, di taglio saggistico, che chiamerei a questo punto Quell’altra cosa là. C’è stato un cortocircuito e mi sono messa a scrivere un saggio su Quella cosa lì, che però si trasformava in reportage, poi in narrazione, poi ancora tornava alla forma del saggio, e dovevo nel frattempo scrivere Quell’altra cosa là che non mi riusciva, e allora mi avvicinavo a Quella cosa lì, ci facevo cerchi intorno come uno squalo. Poi ho trovato una vecchia foto in cui ero travestita da indiano (con uno sguardo corrucciato: non amo i travestimenti), era stata scattata a Quella cosa lì, o così pensavo. Ho detto ecco, questa cosa è sia Quella cosa lì che Quell’altra cosa là. Il libro inizia con la foto. Non l’ho mostrata però, continuavo a ripensare a quello che diceva Roland Barthes nella Camera chiara sulla foto del giardino d’inverno. Avrò avuto sei anni nella mia foto, crescendo le cose si semplificano, ora non mi costringe più nessuno a travestirmi da indiano.»
«Grazie. Credo di non riuscirmi a spiegare se inizio a dire che l’idea di un libro su Gardaland è guarda un po’ partita da una visita a Gardaland. Che ormai odio, ho nominato quel parco così tante volte che per distanziarmi lo chiamerei Quella cosa lì. Mi sono trovata, a luglio di qualche anno fa, in Quella cosa lì. In quel periodo dovevo scrivere una cosa, di taglio saggistico, che chiamerei a questo punto Quell’altra cosa là. C’è stato un cortocircuito e mi sono messa a scrivere un saggio su Quella cosa lì, che però si trasformava in reportage, poi in narrazione, poi ancora tornava alla forma del saggio, e dovevo nel frattempo scrivere Quell’altra cosa là che non mi riusciva, e allora mi avvicinavo a Quella cosa lì, ci facevo cerchi intorno come uno squalo. Poi ho trovato una vecchia foto in cui ero travestita da indiano (con uno sguardo corrucciato: non amo i travestimenti), era stata scattata a Quella cosa lì, o così pensavo. Ho detto ecco, questa cosa è sia Quella cosa lì che Quell’altra cosa là. Il libro inizia con la foto. Non l’ho mostrata però, continuavo a ripensare a quello che diceva Roland Barthes nella Camera chiara sulla foto del giardino d’inverno. Avrò avuto sei anni nella mia foto, crescendo le cose si semplificano, ora non mi costringe più nessuno a travestirmi da indiano.»
2. Il libro è diviso in due parti: la prima, in cui si racconta della gita a Gardaland con un «minuscolo fratello», e la seconda, in cui si scende più in profondità, ripercorrendo il proprio iter biografico-emotivo e dividendosi tra i diversi nonluoghi, quale è Gardaland, con la riemersione del padre scomparso da molti anni. Questa bipartizione ha una qualche funzione particolare nell'opera di riordino della propria vita? Ovvero: il racconto del viaggio a Gardaland è la scintilla che fa sì che la protagonista affronti il fantasma paterno, svolgendo in qualche modo una funzione propedeutica, utile per la decodifica dei propri sentimenti?
«Tutto quello che ho scritto, proprio tutto, è un modo per dire una cosa cercando contemporaneamente di non dirla. È una forma di amore silenzioso, credo, che è anche pudore. Mi fa piacere che nomini i fantasmi. Se qualcuno mi chiedesse di cosa parla il libro, e torniamo al problema di Quella cosa lì, dovrei dire che parla di un padre mai conosciuto e morto, di un ospedale e di una malattia, di figli non avuti e di figli non amati, e di un tentativo non molto riuscito di ritornare al metodo e alla normalità, l’allineamento; solo che effettivamente, stando al testo, parla di montagne russe, di varianti di valico, di trivelle e di autogrill. Mentre scrivevo mi chiedevo: che cos’è tutto questo spreco di io, io e io, a cosa serve. E allora andavo in terza persona, e poi tornavo in prima, visto che lo spreco di io non è una questione di persone. Poi nascondevo il più possibile, facevo pulito, toglievo, cercando di semplificare e stilizzare le cose per nascondermi. È stata quindi una specie di lotta tra due forze contrapposte, che sono io e io che odio io.»
3. La bipartizione si avverte anche nello stile: nella prima parte l'ironia è molto più presente e forte che nella seconda, più malinconica e struggente. Questa introspezione progressiva era già chiara nel piano dell'opera, e quindi è stata pensata e ricercata appositamente, oppure è venuta da sé, man mano che il racconto procedeva?
«La bipartizione nello stile come dici tu è piuttosto netta. Volevo costruire un sopra e un sotto, un recto e un verso, che avessero voci diverse. Barthes mentre lavorava al suo saggio sulla fotografia scriveva anche il suo diario del lutto, per la morte della madre, pubblicato postumo in un volume che è il verso della Camera chiara. Penso poi a Julian Barnes, a Livelli di vita, dove la scrittura saggistica si polverizza quando arriva il racconto della morte della moglie. Ho cercato di prendere un livello, perimetrarlo, guardarlo da sopra e poi sotto.»
4. Nella seconda parte, partendo dagli studi sui nonluoghi, di Marc Augé, fai riferimento a quei posti abbandonati, come Consonno, oppure l'ex ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini di Mombello. L'impressione che se ne ricava è che le due parti siano collegate da un filo sottile: il disorientamento che prova la protagonista durante la gita, nel non ritrovare i punti di riferimento di quando era bambina e nel constatare quanto il parco sia cambiato nel tempo, si rispecchia nella sensazione di abbandono e di desolazione data dai luoghi una volta pieni di vita e ormai in rovina. Le rovine del tempo, insomma, sarebbero paragonabili alla vecchia città che non esiste più. È possibile ipotizzare un collegamento di questo tipo oppure c'è un altro significato che lega le due parti?
«Sì, ci sono collegamenti continui. Se sul recto c’è il campanile della chiesa che sta al centro di Quella cosa lì, il campanile si sviluppa al rovescio, sul verso, magari nella città dei divertimenti di Consonno, dove del paese che c’era prima si è salvata solo la vecchia chiesa. Sopra ci sono dei bambini che urlano sulle montagne russe, sotto ci sono le urla nei sotterranei dell’ospedale psichiatrico di Mombello. Gli elementi della prima parte scendono nella struttura della seconda e assumono una diversa funzione. Sul recto ci sono i sotterranei dei Corsari, con la loro promessa di divertimento. Sul verso c’è il tunnel nel canale della Manica, dove due talpe esauste stanno mangiando la terra prima di scontrarsi. Di qua un parco di divertimenti conosciuto e ancora in funzione, di là, in mezzo al deserto assoluto, c’è Wonderland, un parco asiatico che non è stato mai finito. La seconda parte è un lutto, la prima è tutto ciò che si è fatto mentre sotto c’era il lutto. La questione dei non luoghi è stata presa molto ironicamente (ma non del tutto, perché credo davvero alla faccenda della scrittura che fa lo spazio). Si tratta certamente di un’etichetta superata, che però è stata utile non solo in senso teorico ma anche pratico, per lo sviluppo dei piani urbanistici delle periferie.»
5. Parliamo di Consonno: un paese rovinato dall'abusivismo edilizio e dalla sfrenata verve imprenditoriale del conte Mario Bagno. Quello che nelle sue intenzioni doveva diventare un villaggio turistico di caratura internazionale, si è trasformato col tempo in una città fantasma, accasciata sulle proprie rovine. Le immagini che si trovano cercando in internet e la sensazione di malinconico abbandono che emerge dalla tua descrizione stridono con la vivacità di Gardaland: può essere forse interpretata come una metafora del crollo dell'infanzia?
«La visita a Consonno, che devo a Lucrezia Lo Bianco e Marta Baiocchi, mi ha colpito molto. Stavo già scrivendo il libro su Quella cosa lì e Consonno era il rovescio, la città abbandonata. Torniamo quindi ai fantasmi di cui parlavi prima. Consonno è un luogo brutto, kitsch, ma nel contempo ipnotico, visitandolo devo aver pensato a una serie di altri crolli e fallimenti. Ma i luoghi abbandonati in generale sono anche molto retorici, plastificati. Sembrano modellati per produrre nostalgia. È difficile starne alla larga. Ora mi interessano altre rovine, i luoghi abbandonati nel web ad esempio. L’obsolescenza digitale, in tutte le sue forme, mi interessa moltissimo.»
6. Alle ultime pagine, il tuo libro regala una commozione molto forte, poiché certamente si può dire che possiedi la capacità di scendere a fondo dell'animo umano e di raccontare in maniera estremamente empatica sensazioni ed emozioni che abbiamo provato tutti. La domanda che sorge spontanea, chiudendo il libro, è se davvero possiamo considerarci riappacificati col nostro «tempo perduto» o se rimane per sempre in noi una ferita per quello che è stato e che non sarà mai più.
«Certamente ci portiamo addosso le stratificazioni del tempo, le fratture e le ferite. Non ho provato alcuna nostalgia ripercorrendo il passato, piuttosto sentimenti di odio, disprezzo, ferocia che solitamente non mi appartengono. Non mi sono riappacificata evidentemente con niente, forse è per questo mi sono rimessa subito a scrivere, come se qualcosa non si fosse chiuso. Ma in generale per me è importante non identificarmi con quelle pagine. Dicono che bisogna amare e sostenere il proprio libro, quasi difenderlo. Io mi sento molto distaccata, ma è una cosa che mi capita per tutto, è come se quel libro appartenesse a un altro tempo, non lo amo e non lo odio. Lascio che vada per conto suo.»
7. Un concetto molto forte è quello dell'allineamento: ti va di parlarne? Cosa intendi con questa parola?
«Ci si allinea da quando si esce dall’utero materno. Impari a dire ma-ma, pa-pa come fanno tutti, impari a succhiare, a camminare, ad andare in bici, impari a piangere per ottenere qualcosa. A scuola impari come ci si deve comportare, ti spiegano cosa devi fare e cosa no, i limiti, le norme, e tu imiti, cerchi di inserirti nel gruppo, impari che cos’è il potere, cosa significa esercitarlo e subirlo. Ecco, credo che l’allineamento abbia molto a che fare con il potere.»
8. Agli intermezzi narrativi che raccontano la gita a Gardaland in compagnia del fratellino (con alcuni intermezzi davvero spassosi, dal gusto quasi picaresco) si alternano parti connotate da una nostalgia fortissima per l'infanzia ormai perduta. Spesso, in queste parentesi, e in particolare nel bellissimo e struggente monologo sulla crescita (pp. 75-76), a colpire è l'impressione di una costante disarmonia col mondo circostante, una sensazione di estraneità, la percezione di non essere sulla stessa strada che gli altri percorrono ad occhi chiusi, convinti che rispettare il ritmo scandito dalla società li salverà dal rimpianto. È un'impressione corretta? Come si inserisce questa sensazione nella storia raccontata nel libro?
«Penso, ovviamente, che ogni lettura sia lecita e quello che dico io importi poco. Si è parlato molto di nostalgia, io mentre scrivevo non l’ho provata, non solo non tornerei mai all’infanzia e all’adolescenza, ma nemmeno a dieci anni fa. Mi sento oggi, a quasi trentaquattro anni, nella parte più piena della mia esistenza, sono anni di grazia, questo in particolare. C’è però un passaggio nel testo, quello a cui tu fai riferimento, in cui scrivo “tu non sei lì”. Il “lì” è quel punto della vita in cui capisci che non si è arrivati dove si pensava di dover arrivare. È il momento del fallimento, quando devi modificare l’idea che ti sei fatto di te (che gli altri si sono fatti di te), rimescolare le carte, contemplare più precisamente i limiti della tua esistenza e di quella degli altri. Sei più cosciente della morte, della non esistenza, e devi allora disfare e perimetrare di nuovo: è per questo che parlo di anni di grazia, gli anni in cui si ha la libertà di non prendersi in giro, di essere spietatamente onesti con sé stessi e con gli altri, di liberarsi degli altri se necessario. Ricordo che al liceo, alla prima ora del primo giorno, ci dissero “impegnatevi perché un giorno sarete la nuova classe dirigente”. In generale non amo i piagnistei, ritengo molto barbaramente che se non si è arrivati a ciò che si voleva significa che non lo si è voluto abbastanza. Anche se fosse un pensiero falso, è un pensiero che aiuta, soprattutto a non scomporsi.»
9. Altro cardine del libro: lo spostamento. «Viaggiamo in continuazione, cerchiamo le soluzioni migliori per non perdere tempo, diamo un valore alle fasce orarie della giornata (è meglio perdere ore pomeridiane o serali? Meglio dormire meno e partire all'alba?), proviamo a ottenere un giorno di lavoro da casa solo per una colazione in più insieme. La condizione dello spostamento diventa esistenziale: ci si abitua a essere qui e lì, a lavorare qui e lì, finisce che stare fermi in uno stesso luogo per più di una settimana è mentalmente difficile.»
Questa citazione, una delle più riportate, è lo specchio di una generazione?
«Un grosso cambiamento, che io forse sopravvaluto perché mi riguarda da vicino, è dato dalla possibilità di spostarsi da un luogo all’altro in tempi sempre più brevi (ovviamente non mi riferisco alla tratta Siena-Firenze). Si può dire che l’uomo contemporaneo si riconosce dall’utilizzo dello spazio in modalità Tav. Egli infatti non ha più lo specchietto retrovisore dell’auto, dispositivo novecentesco ampiamente superato, di conseguenza non è più in grado di guardare contemporaneamente avanti e indietro, e affidare il suo sguardo alla simultaneità di linee contrapposte. Lo affida allora al finestrino, al magma fluido che scorre in alta velocità senza soluzione. Lo affida allo schienale della poltrona Frau Italo, del Frecciarossa mille, e lo affida allo schermo, il dispositivo che emette percorsi disordinati invisibili mentre il corpo prosegue sulle rette parallele del binario. Nonostante ciò, nonostante questa enorme rivoluzione, l’uomo contemporaneo non ha ancora capito come si abbassa la suoneria del cellulare.»
10. Una delle cose che colpisce di più scorrendo le pagine del tuo libro, è il rigore metodologico che vi sta al di sotto: oltre alla finissima capacità d'indagine che mostri nel mettere in luce le abili strategie marketing di Gardaland, salta subito all'occhio il fatto che tu sia ricorsa a studi specifici (riportati accuratamente in bibliografia) e che tu abbia svolto ricerche sulla storia del parco divertimenti, andando anche ad intervistare Giorgio Tauber, ex direttore di Gardaland, mischiando narrazione e scrittura saggistica. Perché si è resa necessaria un'indagine tanto approfondita della storia di Gardaland, trasformando il racconto di una gita in una interessante e approfondita ricerca sui nonluoghi? In altre parole, quali risposte si chiedono a quest'analisi?
«Pensavo (a proposito di allineamento) che per scrivere un libro così bastasse fare quello che ti insegnano a fare: spogli bibliografici, ritagli di giornale, interviste, catalogare i dati e poi riunire i tasselli, ordinarli, collegare cose ad altre cose. Ma la scrittura non funziona così, o almeno io non funziono così. Sul tavolo avevo una montagna di documentazione organizzata e la scrittura era sparita. Non mi interessava più quella montagna, volevo andare altrove. C’è qualcosa di misterioso nello scrivere, che ti trascina in un posto indicibile e non ha niente a che fare con gli altri. La scrittura, almeno per me, ha a che fare con qualcosa di buio e sotterraneo su cui mi devo sintonizzare, e ha molto a che fare con il fallimento. Questo libro mi ha insegnato molto. Per sintonizzarmi ho bisogno di silenzio, di mettermi al di fuori, e soprattutto di non ascoltare nessuno.»
11. Questo libro, sia stilisticamente che dal punto di vista dei contenuti, ha dei punti in comune con Mio salmone domestico? Oppure sono due libri che scorrono in parallelo senza alcun punto d'incontro?
«Tutto è la stessa cosa. Salmoni, pesci rossi, Quella cosa lì, ospedali psichiatrici, palombari: è tutto uguale, lo stesso libro e le stesse ossessioni. Scritte in maniera molto diversa, spero.»
12. Cosa piacerebbe ti dicessero di questo libro? Oppure, qual è la cosa più bella che ti hanno detto riguardo quest'opera?
«Distruggi tutto senza paura, torna là sotto e ricomincia.»
intervista a cura di Valentina Zinnà - si ringrazia Emmanuela Carbè per la disponibilità e per le foto.