di Lindsey Lee Johnson
Bompiani, 2017
pp. 318
€ 18,00
Titolo originale: The Most Dangerous Place on Earth
Traduzione di Sara Reggiani
Tristan Bloch ha tredici anni. Non è bello, non è ricco, è socialmente inetto. Viene sistematicamente emarginato e deriso e, quando decide incautamente di scrivere una lettera d'amore a una bella compagna di classe, Cally, innesca un meccanismo mortale fatto di pubbliche umiliazioni, cyberbullismo, aperte istigazioni al suicidio. Letto poco dopo Tredici (qui la recensione), questo romanzo sembra partire da presupposti comuni; la differenza sostanziale è che il focus qui è incentrato non sulle ragioni di chi va, ma sulle conseguenze - nascoste, rinnegate - per chi resta, sull'apparente assenza di traumi, e sulle cicatrici che invece segnano nel profondo i superstiti.
La morte di Tristan non insegna niente, non educa, non migliora i colpevoli: è molto più facile guardare altrove, far finta di nulla, non pensarci più (anche se restano custoditi gelosamente sul fondo degli armadi gli origami da lui lasciati, la lettera incriminata). Arriva solo tardivamente la riflessione, la giustizia postuma, la consapevolezza di quale fosse la vera colpa del ragazzino in un ambiente sociale omologato e omologante: aver avuto il coraggio di esporsi a un mondo cattivo, dire la propria verità senza reticenze, senza pudori. Se lo chiede spesso, ripensando a Tristan, un’insegnante che lo ha incontrato solo fugacemente e ne è rimasta colpita: "faceva con passione solo ciò che lo interessava e trascurava tutto il resto. Anche se al liceo quell'approccio sarebbe stato disastroso, pensai che fosse un ottimo atteggiamento per la vita, e per questo lo rispettavo" (272). Se lo chiede spesso Ryan, che di quella morte è il primo responsabile, "come fosse possibile affrontare la vita in modo così cieco, così sfrontato" (281). A Mill Valley, “quarta miglior cittadina d’America” (50), abitata da famiglie altolocate, la stravaganza e la trasparenza sono peccati non perdonabili. In un luogo in cui si è obbligati a sentirsi felici e fortunati, il non esserlo è più di una colpa, è un atto di ingratitudine impossibile da espiare. E questo, che inizialmente pare essere un problema solo del goffo, timido Tristan, si rivela in realtà un marchio per tutti i protagonisti, nessuno escluso.
Il posto più pericoloso del mondo non è solo un romanzo sulla violenza che spesso si nasconde dietro alla vita scolastica, ma anche sulla cecità degli adulti, che di questa vita hanno una visione parziale e deformata, limitata a quanto viene mostrato loro, e quindi forzatamente superficiale. Questa è la condizione dei genitori: “a dispetto di tutti gli sforzi, [la madre] non sapeva un bel niente di quello che gli passava per il cervello, della rabbia che sentiva nel cuore, del desiderio senza nome che lo tormentava, o del nodo che gli veniva sempre alla bocca dello stomaco quando sentiva che qualcosa non andava” (288). Cresciuti ricchi e viziati, i figli sono gravati dalle aspettative di familiari, mentono per non deluderli, per non incrinare la propria immagine perfetta, per cercare uno spazio di libertà in un ambiente vissuto come opprimente, per mantenere privilegi ottenuti senza mai averli guadagnati. Quali che siano le motivazioni, ognuno ritiene le proprie valide e alimenta una rete di relazioni basata principalmente sulla finzione.
Quella che viene raccontata da Lindsey Lee Jonson è una storia di abissi che si incontrano, di bugie che stridono le une sulle altre, di maschere che da nido confortevole si fanno prigione, di etichette da cui è impossibile liberarsi. Anche i capitoli sono dedicati a ciascuna di queste figure da telefilm americano - l'artista, la ricca, la ballerina, il bello, ecc.-, e poi spiazzano per la precisione chirurgica con cui affondano nell'esistenza dei protagonisti, la sezionano impietosamente, ne mettono in luce le ipocrisie e le fragilità. Il lettore è costretto, come un voyeur, ad addentrarsi nelle vite complesse di un gruppo di giovani considerati privilegiati, scoprendole piene di faglie e di punti deboli, accuratamente celati all’esterno da strati di silenzio o di arroganza.
Emblema della difficoltà di comprendere per chi di quella realtà non fa parte è la professoressa Molly Nicoll, ventitrè anni, alle spalle tanta teoria pedagogica e nessuna esperienza. Giovane ed entusiasta, si inserisce nel mondo scolastico convinta di poter cambiare le cose, di poter toccare l’anima dei ragazzi, ma quella che lei spaccia per vocazione troppo spesso si confonde con l’egoismo:
“Io sono diventata insegnante per insegnare.” Appena lo disse, la voce carica di indignazione, si rese conto che non era la verità. “Volevo aiutarli. Volevo che i libri li salvassero come hanno salvato me” (99).
Troppo vicina per età agli studenti, Molly non riesce a mantenere la giusta distanza, né a comprendere le reali dinamiche che si consumano all’interno della classe che ha di fronte. I suoi slanci sono sempre fuori luogo, le sue interpretazioni degli eventi metodicamente scorrette – a tratti fuorvianti. Convinta dai ragazzi di essere “una di loro”, finisce per perdere di vista il suo ruolo educativo, per lasciarsi trascinare nel vortice caotico della vita adolescenziale, di cui però non potrà mai fare davvero parte. A questo si deve l’isolamento che accompagna il suo lavoro alla Tam High: non in grado di inserirsi adeguatamente nel gruppo dei colleghi più anziani, viene (giustamente) tagliata fuori dalla realtà degli studenti. L’illusione di vicinanza suggerita dai social network non può che esacerbare la situazione, producendo – troppo tardi – un brusco risveglio.
C’è qualcosa, nella lettura del romanzo, che disturba sottilmente: un cinismo che pare eccessivo, un’impossibilità di comprendere quale sia la via giusta, il giusto mezzo. Nel fallimento di Molly, gli insegnanti che si trovassero a leggere l’opera ritroverebbero i propri, variamente declinati, e non si sentirebbero di condividere la condanna che pare trasparire dalle righe. Nelle vite sregolate dei protagonisti, nelle loro infanzie bruciate, nelle loro ferite celate, riconoscerebbero una minoranza dei propri ragazzi, non la totalità, e proverebbero un muto senso di ribellione per la generalizzazione, per l’assenza di speranza. Avvertirebbero, bruciante, la necessità di sapere, di sostenere, di gridare a gran voce che c’è chi si salva. Che la ferocia verbale e la violenza psicofisica esercitate dai forti ai danni dei più deboli non sono caratteristica comune a tutti i giovani, a tutte le scuole.
Dal pericolo incombente del nichilismo salva però la figura di Cally, o Calista, come si fa chiamare dopo il suicidio di Tristan Bloch. Cally è colpevole e lo sa: colpevole di superficialità, di noncuranza, di pavidità. Ma sa crescere, sa cambiare, sa scontare la propria colpa. Sa guardare oltre l’apparenza, indagare il proprio intimo. Ricorda Tristan e rende a suo modo onore alla sua morte. La parabola di Calista non è sempre felice, sempre positiva; la sua conclusione, tuttavia, è uno straordinario riscatto per la gioventù allo sbando descritta nelle pagine precedenti. E con il piglio della grande ritrattista, Lindsey Lee Johnson si congeda dai suoi lettori con un regalo, il miraggio di una ritrovata fiducia nella vita.
Carolina Pernigo