Afghan West
voci dai villaggi
di Katiuscia Laneri, Elisabetta Loi, Samantha Viva
Bonfirraro Editore, 2013
pagine 168
Euro 29,00
C'è un momento preciso in cui il flash di una macchina, una domanda di troppo, persino uno sguardo, superano il limite e in questo mestiere, profondamente empatico nei confronti degli altri, bisognerebbe essere in grado di percepire quel momento prima che arrivi.
Non è un paese per donne, l'Afghanistan; a Herat, tuttavia, alcune donne gestiscono Radio Shahrzad, un'emittente tutta al femminile che difende quei diritti che, nonostante la cacciata dei talebani, le donne non sono riuscite a riprendersi. A Camp Zafàr l'esercito afghano sta addestrando i primi contingenti di donne soldato, che saranno destinate a mansioni logistiche e di supporto.
Non molto, se guardiamo attraverso la prospettiva etnocentrica di occidentali "liberi"; se invece riusciamo a liberarci dalle pastoie dei nostri pregiudizi, possiamo renderci conto di come questi aspetti di minor portata siano in realtà risultati fondamentali nel processo di riacquisizione del pieno status di cittadinanza da parte delle donne afghane.
Non molto, se guardiamo attraverso la prospettiva etnocentrica di occidentali "liberi"; se invece riusciamo a liberarci dalle pastoie dei nostri pregiudizi, possiamo renderci conto di come questi aspetti di minor portata siano in realtà risultati fondamentali nel processo di riacquisizione del pieno status di cittadinanza da parte delle donne afghane.
Certo, va detto che tutte queste attività avvengono sotto il controllo e la supervisione maschile, e anche (o soprattutto) che l'emancipazione femminile nulla ha a che fare con l'universo militare, maschile e massificante per definizione. Ma sono indubbiamente segnali che indicano un inizio, che sono le donne stesse a voler essere protagoniste nello stabilire il proprio ruolo sociale, non più soggetti passivi sporadicamente gratificati da qualche privilegio concesso loro dagli uomini.
In Afghanistan la difficilissima condizione femminile va ad aggiungersi ai tanti problemi di un Paese il cui ordito sociale è stato ridotto a brandelli da quasi quarant'anni di conflitti, che hanno creato un tasso di criminalità altissimo, un mercato di armi e droga che è probabilmente fra le rare voci in attivo dell'economia nazionale (quella sommersa ma fino a un certo punto), una povertà culturale e umana oltre che materiale che rende quasi impossibile ogni sforzo di pacificazione e ricostruzione.
Questo è il quadro in cui diversi Paesi occidentali, Italia compresa, tentano di dare sostegno alla rinascita dello Stato e delle sue componenti, fra cui quelle fondamentali afferenti al comparto della sicurezza. I militari italiani sono presenti con questo scopo, che si esplica nell'addestramento di esercito e polizia locali, nonché con strutture sanitarie e compiti di rappresentanza e contatto con le autorità dei villaggi per l'organizzazione e la gestione degli aiuti.
In estrema sintesi, questo è quanto contenuto in Afghan West, il reportage che tre giornaliste al seguito dei militari italiani dell'ISAF hanno prodotto dopo un periodo passato nella provincia di Herat, uno sciame di villaggi lontani anni luce da Kabul, dove il processo di ricostruzione è ancora più difficile che nella capitale.
Tre donne coraggiose, ben consce che la condizione di embedded non pone al riparo dai pericoli ma, al contrario, può costituirne uno maggiore, trasformando un civile in un bersaglio, posto che l'Afghanistan è una zona ancora rovente e con un territorio disseminato di esplosivi improvvisati.
Afghan West è un libro notevole sotto diversi aspetti: dal punto di vista estetico, grazie alle bellissime fotografie di Elisabetta Loi, la cui qualità è resa pienamente dal formato del volume che permette di soffermarsi su mille particolari e, soprattutto, su visi e sguardi che raccontano infinite storie; è un interessante documento filmico grazie al videoreportage di Katiuscia Laneri (visualizzabile sul sito web dell'editore), che documenta gli incontri con la gente del luogo e dà voce a chi spiega come il difficile lavoro relazionale fra i militari italiani e le autorità locali viene strutturato e portato avanti.
E poi c'è il testo a opera di Samantha Viva, che racchiude in sé l'oggettività giornalistica, il rigore professionale ma in particolare una profonda partecipazione umana, fatta di rispetto verso le persone, di umiltà negli atteggiamenti, quasi a scusarsi per l'intrusione nelle vite altrui, di una sensibilità non comune: aspetti che arricchiscono un volume già di per sé importante e apprezzabile perché offre una prospettiva "dal basso", che presenta sotto molteplici forme attori diversi, non sempre di primaria - e scontata - importanza, ma la cui testimonianza è fondamentale per avvicinarsi al processo di ricostruzione di un Paese martoriato.
Stefano Crivelli