Maria di Ìsili
di Cristian Mannu
Giunti editore, 2016
pp. 160
cartaceo €14
ebook €2,99
Stratagemmi, tecniche e prestiti in arte sono la norma, si sa, eppure c’è una certa etichetta nel loro utilizzo: non li si deve mostrare troppo e si deve evitare l’abuso. Anche perché, se capita, ciò che si produce è un vago fastidio, una interferenza che scaccia l’attenzione. Ebbene, una simile sensazione si ha con Maria di Ìsili di Cristian Mannu: l’ammiccamento pervasivo ed esplicito ad una certa cultura media e pop e l’uso insistito di figure retoriche sfiancano il lettore, che pure non avrebbe difficoltà a farsi affascinare dalla trama e dalla struttura.
Il romanzo d’esordio dello scrittore sardo – vincitore nel 2015 del Premio Calvino per approdare alla Giunti l’anno successivo – ha come ambientazione il sud della Sardegna e come sua radice un matrimonio. Rosaria Granata, bellissima siciliana sposa Michele Piga, ma solo per avvicinare a sé l’amico del marito, Pietro Uggias, già unito a una moglie non amata: il tradizionale triangolo amoroso produrrà sofferenze laceranti che, come semi marci, genereranno destini maledetti fatti di dolore e tradimenti. Le prime vittime – fulcro del romanzo – saranno le figlie della coppia, Maria ed Evelina, ma il fato infelice, non pago, colpirà anche la loro progenie. I tentacoli della sfortuna e il divenire degli eventi e delle generazioni vengono narrati da dieci protagonisti, ognuno con un’inflessione e un nucleo di motivazioni diverse: si passa dalla popolana amorevole al frustrato intellettuale di provincia, dall’autodidatta al semianalfabeta.
Il romanzo corale ha una struttura stimolante anche se non nuovissima e un tema piuttosto battuto, che destano interesse per la presenza di una velata critica alla comunità tradizionale e per lo spaccato di una parte di società che la narrativa sarda non frequenta spesso, come quella popolare delle città del dopoguerra. Le voci narranti sono sempre diverse, ma solo in alcuni casi davvero efficaci. Infatti spesso i punti di forza vengono offuscati da una lingua che si fa artefatta nel momento stesso in cui si propone come spontanea. Non parlo solo del solito collage italiano-lingua minoritaria che – pur giustificato – è ormai liso; ma anche di un dettato che si rifà a stilemi cantautorali e lirici espressi con una insistenza di figure retoriche ridondanti – tra tutte l’anafora – e di un tono oracolare eccessivo; oppure, all’opposto, di una voce che per caratterizzarsi è costretta a colorarsi fino a diventare quasi eccessiva. A questo si aggiungono poi le strizzatine d’occhio verso una cultura che ha come costellazioni di riferimento De André – sua la citazione in esergo – con tutto il mondo della canzone leggera italiana, Grazia Deledda – evocata con frequenza – e quella narrativa isolana che perpetua una certa idea di sardità.
La perseveranza nei primi capitoli del discorso post-mortem, della fascinazione per la povera gente dal piglio anarchico e il periodare da canzone dà ad alcuni brani un profumo di “mille papaveri rossi”; mentre alcune frasi sembrano un riverbero di versi già orecchiati dalle radio, faccio due esempi:
ho placato le vertigini privandole della paura e bramando il volo
Occhi di luna senza cielo
Il tema dell’amore colpevole, della fuga, ma anche e soprattutto la presenza forte di un paesaggio imponente e del vento riportano alla mente più di una volta il Premio Nobel del 1926. Ma non solo lei o meglio, non proprio la Grazia nuorese è il riferimento principale del romanzo, ma piuttosto quella costruzione identitaria – alcuni direbbero storytelling – che vede l’isola tragica e fantasmatica, crudele e nobile, struttura che nasce con la scrittrice ma che dopo di lei viene estetizzata fino a permeare il pensiero dei sardi facendola diventare, col tempo, uno dei più adamantini stereotipi letterari. Ed è a questo che Mannu sembra riferirsi, tanto da citare chiaramente il suo ultimo ed “illustre” erede, Salvatore Niffoi: «visi stanchi di donne rimaste vedove e scalze».
Un esordio, questo di Cristian Mannu, che sembra permeato dal desiderio di trovare riferimenti e di ostendere genealogie e debiti, invece di seguire le vene originali che possiede. Se in letteratura i debiti si pagano con le parole e le idee Maria di Ìsili è un romanzo in rosso, scritto però da un autore che mostra di poter fare meglio ma solo a costo di non cedere alle lusinghe di un consenso di facile corso.
Gabriele Tanda
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