Mentre dorme il pescecane
di Milena Agus
Nottetempo, 2005
pp. 171
€12,00
Un vecchio adagio recita di non svegliare il can che dorme, perché potrebbe fare molto peggio che limitarsi ad abbaiarci contro. Ma se quello assopito è un non meno pericoloso pescecane, e noi, come già Pinocchio e Geppetto, ci sentiamo intrappolati nella sua grande pancia, piena di cose rotte e piccoli e grandi relitti, che cosa è meglio fare per uscire da quel buio angosciante e ricominciare a nuotare liberamente in mare aperto, in pieno sole? Secondo il padre della protagonista del romanzo d’esordio di Milena Agus bisogna approfittare proprio del sonno del bestione, perché è proprio quello il momento ideale per sgusciargli via dalle viscere attraverso i denti affilati. Una volta fuori, poi, ci si sentirà come Giona e come Giobbe: sopravvissuti a tanto patimento e ancora più pazienti di prima, consapevoli di avere sopportato a lungo ma con la certezza che la fatica non sia stata vana.
Nella famiglia dell’io narrante – i Sevilla Mendoza, sardi «sin dal paleolitico superiore» – tutti inseguono qualcosa: «mamma la bellezza, papà il Sud America, mio fratello la perfezione, zia un fidanzato» (e c’è anche la nonna, che ha sempre un’opinione su tutto e su tutti). A esplicitarlo, in apertura di romanzo, è la stessa protagonista, con una confessione che somiglia a quelle profezie tragiche che si avverano perché vengono annunciate. Per quanto la riguarda, dato che la vita in questo mondo sembra non darle abbastanza soddisfazioni, le piace inventare storie e soggiornare di là, in una realtà parallela. E poi le piace anche un uomo più grande di lei, sposato e con una passione per le pratiche sessuali estreme, croce e delizia del suo piacere sedicenne. Che cosa sostiene l’equilibrio precario di questi personaggi, tutti tesi verso il compimento di ideali assoluti e il raggiungimento di luoghi (anche dell’anima) lontani? Forse proprio il loro essere una famiglia, così bene assortita nelle reciproche diversità da perdonarsi tutto: debolezze, difetti, inettitudini, fissazioni, manie, assenze, eccessi e tradimenti. Finché una tempesta inattesa (o magari era “solo” l’esplosione di una mina sottomarina?) comincia a montare sempre più minacciosa, e la prospettiva del naufragio, da ipotetica, si fa drammaticamente reale, e ci si ritrova (o ci si vuole ritrovare?) senza bussola, fradici e depressi nello stomaco di un enorme pesce cattivo che tra poco digerirà ed espellerà i suoi ospiti sgomenti:
Nella famiglia dell’io narrante – i Sevilla Mendoza, sardi «sin dal paleolitico superiore» – tutti inseguono qualcosa: «mamma la bellezza, papà il Sud America, mio fratello la perfezione, zia un fidanzato» (e c’è anche la nonna, che ha sempre un’opinione su tutto e su tutti). A esplicitarlo, in apertura di romanzo, è la stessa protagonista, con una confessione che somiglia a quelle profezie tragiche che si avverano perché vengono annunciate. Per quanto la riguarda, dato che la vita in questo mondo sembra non darle abbastanza soddisfazioni, le piace inventare storie e soggiornare di là, in una realtà parallela. E poi le piace anche un uomo più grande di lei, sposato e con una passione per le pratiche sessuali estreme, croce e delizia del suo piacere sedicenne. Che cosa sostiene l’equilibrio precario di questi personaggi, tutti tesi verso il compimento di ideali assoluti e il raggiungimento di luoghi (anche dell’anima) lontani? Forse proprio il loro essere una famiglia, così bene assortita nelle reciproche diversità da perdonarsi tutto: debolezze, difetti, inettitudini, fissazioni, manie, assenze, eccessi e tradimenti. Finché una tempesta inattesa (o magari era “solo” l’esplosione di una mina sottomarina?) comincia a montare sempre più minacciosa, e la prospettiva del naufragio, da ipotetica, si fa drammaticamente reale, e ci si ritrova (o ci si vuole ritrovare?) senza bussola, fradici e depressi nello stomaco di un enorme pesce cattivo che tra poco digerirà ed espellerà i suoi ospiti sgomenti:
lì nel rifugio, una sorta di ventre di pescecane, c’erano tutte le cose che il mare vi aveva portato dopo millenni di storia, solo che la vita da sopravvissuti non dava nessuna soddisfazione. E soprattutto non capivamo che cosa avesse fatto scoppiare l’atomica […] Magari un oggetto qualunque c’era caduto sopra e la bomba era scoppiata, o forse era Dio che aveva organizzato male le cose e adesso non c’era più niente, solo questo ventre di pescecane pieno di cianfrusaglie.
Che fare per scongiurare ogni più ferale prospettiva, mettersi in salvo e recuperare i pezzi? Se chi non c’è più non può tornare e ciò che è andato perduto non si può recuperare – e se i morti non possono resuscitare, se i cuori erranti non si possono fermare, se gli esteti non possono fare a meno dell’armonia, se i cercatori d’amore non possono accettare la solitudine… – forse si può avere pace solo dandosi la possibilità di un nuovo ordine, che sarà confortante non per la sua perfezione a tenuta stagna, ma proprio per la sua provvisorietà:
capii che era quello il momento di scappare» dirà la protagonista «perché ero felice non di ciò che succedeva, ma per il semplice fatto di esistere e me lo sentivo che era quella l’idea giusta e il pescecane adesso stava dormendo. Fu allora che vidi un varco fra i suoi denti, mi ci infilai e poi mi lasciai scivolare giù sulla sabbia e trascinare dalla delicatissima corrente del mare e sapevo che ce l’avrei fatta e che sarei diventata saggia e carica d’anni come Giobbe.
In Mentre dorme il pescecane, il romanzo che più di dieci anni fa rivelò ai lettori la voce nuova di Milena Agus, si ritrovano già molti dei temi (e dei modi) che anche nelle opere future saranno sempre cari alla scrittrice: la musica (l’arte, la bellezza…) che isola e nel contempo salva, la ricerca dell’amore vero e il compromesso della sua attesa, il sesso vissuto e descritto con spontaneità e senza giri di parole, l’esistenza di problemi che non è mai possibile risolvere in un modo solo o appellandosi a un Dio che fa il buono e il cattivo tempo... E infine, non ultima, la stessa Sardegna, Cagliari, la costa meridionale, e quel suo mare che sempre esiste principalmente come stato d’animo: calmo, burrascoso, solcato da navi da crociera illuminate che entrano ed escono dal porto, popolato da pescecani che traghettano i malumori passeggeri di un’umanità totalmente imperfetta e sempre disastrosa, che resta innamorata della vita a dispetto di ogni tragedia, di ogni beffa, di ogni offesa e di ogni (in)consapevole autolesionismo.
Cecilia Mariani