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Avere sei anni e non dimostrarli: "Ave Mary" di Michela Murgia

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Ave Mary.
E la Chiesa inventò la donna
di Michela Murgia
Einaudi, 2011

pp. 166

Euro 16,00

Ave Mary ha appena compiuto sei anni. Se fosse una bambina, adesso frequenterebbe la prima elementare. O forse, in virtù del suo acume, avrebbe già messo grembiule e fiocco rosso con dodici mesi di anticipo, guadagnandosi la fama di scolara più impertinente della classe. Del resto non c’è voluto molto, fin dalla sua nascita poco più che un lustro fa, perché fosse giudicata da più parti un’infanta insopportabile e malmostosa. Ave Mary non ama giocare al gioco del silenzio, ma neanche risponde sempre «si, grazie». Come se non bastasse non sa stare ferma, seduta composta e con le braccia conserte, perché preferisce muoversi liberamente. E quando l’autorità costituita prova ad acciuffarla per predicarle in faccia le regole della mansuetudine e dell’obbedienza, lei guarda e ascolta attenta il suo censore per poterlo contraddire al meglio. Non per mero sfizio dialettico, ma solo perché è troppo facile coglierlo in fallo. Nemmeno le piace chi la vezzeggia e la trova adorabile nella sua ribellione: non aspira alla lusinga di chi ha nostalgia della propria rivoluzione mancata, uomo o donna o altro che sia. Ave Mary è femmina, e non odia i maschi per partito preso: se del loro innamoramento non le importa granché, è perché sa che il loro rispetto è infinitamente più importante.

Pubblicato da Einaudi nel 2011 dopo il successo di Accabadora, Ave Mary, il saggio di Michela Murgia dal provocatorio titolo pop-teologico, non ha avuto una prima infanzia tra le più serene. Perlomeno, non nel senso più “passivo” del termine. C’era da aspettarselo, per un libro nato con l’intento di smontare pezzo per pezzo la costruzione della donna perpetuata da secoli dalla (e ad uso e consumo della) cultura e società cattolica; ovvero, citando il sottotitolo, per dimostrare come la Chiesa inventò la donna. E non una donna qualsiasi, bensì una che avesse a modello la madre stessa di Gesù, quella Maria – la “Mary” salutata nell’intestazione – subito assunta a comodo simbolo di ogni presupposta virtù muliebre: subordinazione, mitezza, sacrificio, accudimento e infinita grazia (sia esteriore che interiore). Un’ “invenzione” tra le più scientemente fraintese e strumentalizzate della storia, che ha fatto quasi dimenticare la sua origine artificiosa per porsi come riferimento spontaneo e naturale per tutte le donne, cattoliche o comunque appartenenti a contesti permeati da quel tipo di cultura.

In sei capitoli, tutti preceduti da un ricordo personale della stessa Murgia (che per otto anni fu anche animatrice in Azione cattolica), vengono descritte le facce di un dado che, comunque lo si tiri, finisce col rimandare a una sorte tutt’altro che fatata: un copione già scritto raccomanderebbe alle donne il modus a cui conformarsi in ogni occasione, dalla morte al sesso, dalla cura di sé al matrimonio, dalla maternità alla professione. Un copione, appunto, che l’autrice contesta e problematizza a ogni battuta, per mostrarne un sottotesto fatto di diktat religiosi e culturali divenuti paradigma e senso comune, nocivi sia per quelle donne che più o meno consapevolmente vi si adeguano, sia per quegli uomini che – da un pulpito come da un banco di tribunale, da un seggio parlamentare come da un talamo nuziale – ne hanno tratto e ancora ne traggono forme di vantaggio, precedenza e superiorità. Questo libro li chiama in causa in uguale misura, perché come spiega la Murgia
«il processo di riappropriazione della propria complessità per le donne deve passare attraverso la costruzione di un sano immaginario del limite. È una questione di sopravvivenza, e non solo in rapporto a se stesse, perché la donna rappresentata da Maria offre anche all’uomo un modello inaccessibile e frustrante con cui rapportarsi. Impossibile da possedere, intangibile al tempo e alla sua consunzione, la donna-santuario resta un mistero davanti al quale o ci si inginocchia o si bestemmia».
A questo scopo, lo stile adottato nel saggio è più che mai d’aiuto: se Ave Mary, a dispetto della scomodità dei contenuti, si legge sempre “che è un piacere”, è perché l’autrice sa come dosare rigore argomentativo, ironia e sarcasmo: a partire dai titoli dei capitoli e dei paragrafi – in cui il gioco di parole la fa spesso da padrone e annuncia il contenuto dissacrante dei capoversi successivi – o da certe epigrafi fulminanti tratte dal repertorio subdolo della cultura popolare – dal «Sei la più bella del mondo/Religione per me» preso dall’omonima canzone di Raf al sexy-iconico «È che mi disegnano così» di Jessica Rabbit. Peccato che poi, a ben comprendere, non ci sia proprio niente da ridere, perché la felicità della scrittura è solo il cavallo di Troia con cui inseminare la coscienza critica del lettore. Nel fare questo, Ave Mary evita la strategia della facile illusione, perché tra le mani non ostenta nessuna creatura/creazione redentrice o consolatoria: su un palmo può anche esserci la pillola amara addolcita dalla brillantezza dello stile, ma nell’altro c’è la freccia al neon che la indica proprio come tale. Il libro di Michela Murgia, con il plauso e le polemiche che continuano tutt’oggi ad accompagnarlo, si conferma di un’attualità non smentita e non smentibile: il fatto che ciò accada a sei anni di distanza dalla sua uscita è la prova che certe complesse questioni hanno ancora bisogno di tutta la nostra intelligenza, e possono (meglio: devono) fare a meno di comodi placebi.

Cecilia Mariani