Postwar
di Tony Judt
Editori Laterza, 2017
Traduzione di Aldo Piccato
Pp. 1023
€ 25
Out here in the fields
I fight for my meals
I get my back into my living
I don't need to fight
To prove I'm right
I don't need to be forgiven
Don't cry
Don't raise your eye
It's only teenage wasteland
Baba O'Riley, The Who
Nonostante siano passati settantadue anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il periodo successivo, ovvero il, dipende da come lo si intenda, lunghissimo o brevissimo Dopoguerra (da scriversi con la lettera maiuscola perché ormai diventato e una categoria storica ben precisa e un nome proprio per antonomasia) è ancora al giorno d'oggi un tema poco esplorato nelle scuole italiane come in quelle degli altri Paesi. Certo la Storia per poter essere insegnata con un minimo di raziocinio va digerita e ripensata più e più volte ma appare abbastanza curioso il fatto che nel 2017 la stragrande maggioranza dei programmi scolastici, almeno di quelli effettivamente realizzati, si fermino poco dopo, almeno per l'Italia, il 2 giugno 1946, ovvero il giorno della proclamazione della Repubblica.
Il monumentale libro Postwar di Tony Judt è quindi doppiamente prezioso perché non soltanto ha una visione apertissima delle cose europee, viste, una volta per tutte, non in maniera separata da Stato a Stato ma in maniera, giustappunto, continentale ma è un volume decisamente importante perché ci costringe a fare i conti (e non è importa l'età del lettore, questi conti si fanno sia che si sia nato ancora nell'epoca dei totalitarismi sia all'indomani della caduta del Muro di Berlino e ancora dopo) con la nostra propria storia. Siamo tutti quanti coinvolti dallo studio di Judt, storico britannico ma che non una visione britannicocentrica: come molti suoi colleghi, lo storico infatti prende sempre una posizione assolutamente neutrale negli argomenti studiati, consegnandoci un affresco amplissimo che si squaderna intorno a noi.
Ma questa neutralità non significa il fatto che egli non prenda posizione o che non esprima dei concetti personali. Tutt'altro. Anzi il testo è ancora più prezioso e imprescindibile proprio per questo: perché Ton Judt ci dà una visione allargata delle cose europee eppure perfettamente personale, in un gioco che si muove in modo allo stesso tempo centrifugo e centripeto, ottimale per la più rifinita delle fruizioni.
Ma che cosa si "scopre" in questo Postwar? Innanzi tutto, anche se il libro è stato scritto nel 2005, se lo si fosse letto per tempo, pochissimo di noi si sarebbero stupiti del risultato del referendum sull'uscita o meno della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Infatti se si escludono brevi, brevissimi periodi di filo-europeismo (più forte negli anni Settanta, anni di profonda crisi industriale ed economica ed anche nei Novanta di Tony Blair), la Gran Bretagna è sempre stata cosa "altro" rispetto ai Paesi europei e sempre così si è piaciuta autodefinirsi, puntando forte su un rapporto di esclusività con l'alleato di ferro statunitense. Ecco allora che la profonda analisi di Ton Judt ci fa capire come la Germania, prostata, affranta e colpevolizzata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nonostante l'eccezionale miracolo economico, industriale e sociale compiuto in brevissimo tempo (e con il territorio nazionale praticamente dimezzato) per forza di cose non poteva prendere su di sé la leadership europea (posizione di dominio mai veramente avuta, neppure ai tempi del Secondo Reich di Bismarck ma, sempre, anelata e "vissuta" come un dato di fatto). Con l'Italia alle prese con cronici ed endemici problemi sociali (le sperequazioni tra Nord e Sud, il Partito Comunista più grande e forte d'Europa e la presenza sul proprio suolo di svariate Mafie), l'unico Stato che poteva avere il ruolo-guida sul continente era la Francia e così sarà: quasi un'elezione per esclusione confermata anche dal più "ballerino" e meno importate tra i posti al Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Ecco allora che in più di 1000 pagine, dividendo il volume in agili capitoli e temporali e tematici, Tony Judt ci fa comprendere meglio come il processo di costruzione di un'identità comune europea da un lato non ha senso in quanto "essere europeo è qualcosa di praticamente scritto nel DNA al momento della nascita" e dall'altro è un processo arduo, difficile, quasi impossibile per le secolari differenze tra Stato e Stato, da confine a confine, quasi da casa a casa che gli europei recano con sé.
Certo il tono globale del libro è filoeuropeo (e forse non sarebbe potuto essere altrimenti) ma non in maniera fideistica, comprendendo bene come di lavoro da fare ce ne sia tantissimo e non è detto che la conclusione debba essere per forza positiva (le differenze di storie, anche dal punto di vista dell'organizzazione dello Stato e della società tra Ovest ed Est, ad esempio, paiono difficilmente superabili ancora al giorno d'oggi). Tuttavia proprio la piena presa di coscienza di questi problemi potrebbe essere la chiave di volta per un disegno comune: non un'identità formata sul "cosa non si è" ma sulla difficoltà di chiudersi entro una definizione totalizzante, di autodeterminarsi entro confini ben precisi e ingabbiarsi in una forma-mentis cristallizzata. La cosa importante è la presa di coscienza della Storia, la piena comprensione di essa. Scrive infatti lo stesso Tony Judt in quello che si pò tranquillamente considerare come il libro di storiografia dell'anno (se non del decennio):
L'Unione Europea può essere una risposta alla Storia, ma non potrà mai prenderne il suo posto
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