Abbiamo conosciuto Prospero grazie alla lettura di un romanzo recentemente edito, Sete di Roberto Marri (qui la recensione); per scoprire di più in merito al loro lavoro, siamo quindi andati a fare due chiacchiere con il direttore, Riccardo Burgazzi, che è dottore di ricerca in filologia mediolatina e ha insegnato “Storia del libro” presso l’Università Carolina di Praga.
Com'è nata la casa editrice e da chi è composta?
L’idea di creare una casa editrice risale al maggio 2012 e può essere considerata la soluzione data da un gruppo di giovani laureati in materie umanistiche al classico impasse cui va incontro chiunque cominci ad avvicinarsi al mondo dell’editoria: da un lato, se si è scrittori, richieste di migliaia di euro per una pubblicazione; dall’altro, se si aspira a essere redattori, collaborazioni poco o per nulla retribuite, che sembrano non trovare mai un approdo stabile. Così, abbiamo concluso che valeva la pena tentare da soli e, dopo anni di rodaggio in cui pubblicavamo per lo più ebook e ci strutturavamo sotto tutti i punti di vista, nel maggio 2016 abbiamo cominciato a pubblicare cartacei, ideando una linea grafica ben riconoscibile e munendoci di una distribuzione nazionale (DirectBOOK). Oggi la redazione è formata da dottori di ricerca in letteratura e professionisti del mondo librario, mentre il catalogo continua a espandersi, consentendoci di partecipare a diverse fiere e organizzare presentazioni presso biblioteche, locali, circoli, associazioni e librerie.
Qual è la vostra linea editoriale?
Prospero Editore si occupa di letteratura (intesa come “arte della scrittura”) a tutto tondo, spaziando dalla fiction alla critica letteraria, dal reportage giornalistico, alla diaristica di viaggio.
Come selezionate i manoscritti?
Durante l’anno facciamo varie tornate di lettura per analizzare le proposte arrivate e la selezione avviene innanzitutto seguendo criteri atti a valutare la qualità degli elaborati. In genere bastano pochi minuti per capire quando uno scritto non è interessante; quando un’opera risulta ben scritta, al contrario, le dedichiamo più tempo, perché i testi verso i quali cerchiamo di orientarci non sono solamente quelli scritti bene, ma soprattutto quelli che lasciano trasparire una consapevole volontà letteraria. L’obiettivo che ci poniamo, dunque, è quello di includere nel nostro catalogo scrittrici e scrittori che siano al contempo dotati di talento e di intelligenza letteraria. Appurato quindi che un testo è di qualità, cerchiamo di sondare il tipo di mercato che potrebbe avere e ci mettiamo in contatto con l’autore.
In un contesto in cui molte piccole case editrici per sopravvivere sono costrette a chiedere una partecipazione economica attiva agli autori, voi come riuscite a mantenervi?
Inizialmente, quando facevamo solo ebook e tutto era in fase di rodaggio, abbiamo coperto le principali spese con i nostri soldi e, in minima parte, finanziato l’attività bandendo alcuni concorsi letterari dove era prevista una quota da versare, spiegando però in modo esplicito che si trattava di un contributo a sostegno del nostro progetto editoriale (queste iniziative, tra l’altro, ci hanno fatto trovare buoni testi per implementare il nostro catalogo e allargare il nostro pubblico). Oggi, naturalmente, il grosso dei proventi viene dalla vendita dei libri e dalle iniziative promozionali che conduciamo in sinergia con le autrici e gli autori.
Come vi ponete nei confronti dell'editoria a pagamento?
La nostra casa editrice non risponde a logiche di vanity-press, perché – come dicevamo – cerca di creare il proprio catalogo secondo principi esclusivamente qualitativi. Ciò premesso, e quindi sgomberato il campo da qualsiasi equivoco, anziché fare eco alle note (e in buona parte condivisibili) critiche a quel tipo di attività editoriale, vorrei piuttosto approfittare dell’occasione rappresentata da questa intervista per porre due questioni a mio avviso più importanti.
Prima: si parla di editoria a pagamento... ma quale delle tante? Quella accademica? Quella finanziata dai comuni o dai ministeri? Dalle squadre di calcio o dai programmi televisivi? Quando si parla di editoria a pagamento, tali categorie non vengono mai nominate, eppure come si può definire diversamente il loro rapporto con le case editrici? Come vogliamo chiamare i vari master in editoria che non costano meno di 5.000 euro e sostanzialmente si fondano sull’illusione che alla fine del percorso ci sarà senz’altro una sedia libera ad aspettarti nell’ufficio redazionale di un “prestigioso” gruppo editoriale?
Seconda: non sarebbe ben più utile e valoroso scagliarsi con la stessa enfasi contro quelle case editrici (grandi, medie e piccole) che sfruttano il lavoro di collaboratori qualificati illudendoli di poter lavorare con loro, ma offrendo invece solo una serie infinita di stage poco o per nulla retribuiti, che di solito sono il naturale proseguimento dei master in editoria dei quali sopra?
Queste domande sono volutamente provocatorie e per affrontarle seriamente occorrerebbe uno spazio
ben più vasto di quello a disposizione, ma su due piedi verrebbe quasi da concludere, in primis, che praticamente non esistono case editrici che, in un modo o nell’altro, non siano etichettabili come “a pagamento”; poi, che il sistema da ripensare sia quello del “presunto libero” mercato editoriale, del quale la vanity-press è solo una trascurabile escrescenza rispetto ai ben più gravi danni sociali che generano una consolidata e sempre più accettata struttura fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Hai le idee molto chiare. Per concludere, puoi dirci come Prospero cerca di sfuggire dalle logiche che hai descritto?
Nel nostro piccolo, cerchiamo di non illudere nessuno (per esempio, non intrecciando collaborazioni retribuite solo con una riga in più sul curriculum vitae, né promettendo a un autore di diventare milionario grazie al proprio libro) e riportare, semmai, il nostro lavoro a una dimensione “umana”, dove l’oggetto libro diventa un momento di incontro e scambio con l’altro. Un risultato tangibile di questo modo di intendere il mercato librario si è visto di recente in una grande fiera del libro, dove l’enorme casa editrice che dedicava otto metri quadri di spazio al noto cuoco televisivo finiva per vendere in proporzione meno di noi, che eravamo in grado di presentare i nostri libri ai potenziali lettori, a partire dal racconto dei contenuti.