di Andrea Carraro
MelvilleEdizioni, 2016
253 pp.
€ 17,50
Come si legge nella postfazione di Fabrizio Ottaviani, tranne alcuni inediti tutti i racconti presenti in questo libro attingono dalle due raccolte La lucertola (Rizzoli, 2001) e Il gioco della verità (Hacca, 2009). Abbiamo dunque a che fare con storie scritte nell'arco di una decina d'anni; e anni importanti oltretutto, che hanno visto per esempio l'introduzione dell'Euro e l'avvio della crisi economica. Se differenze sostanziali sono rinvenibili fra i vari racconti, un elemento è onnipresente in ogni narrazione, quell'elemento che ha reso famoso Carraro grazie al romanzo Il branco (Theoria, 1994; poi Gaffi, 2012) e trasposto nel film di Marco Risi: il male.
Il male di cui parla Carraro non è un'entità o un concetto astratto, né tantomeno un'agostiniana assenza di bene: è qualcosa di più strettamente terreno e quotidiano, così ferale e spesso ingiustificato da far saltare molti metri di giudizio. È un male emanato non soltanto dai balordi delle classi sociali più umili tanto amate dallo scrittore romano − come accade appunto nel Branco, dove a farla da padrona sono operai, ladruncoli, piccoli malviventi: dei balordi, appunto − bensì anche da persone più o meno altolocate, come si vede nel bellissimo racconto Il gioco della verità, che coinvolge uomini e donne della media borghesia romana; o anche nell'Inaugurazione, che prende di mira una intellighenzia politicamente schierata.
Non è un resoconto delle condizioni proletarie, quello di Carraro. Non è un accendere i riflettori su manovali, carpentieri, baristi, impiegati, sebbene sia innegabile che questi siano i principali protagonisti delle sue storie. Coinvolgendo persone di ogni sesso, ogni estrazione sociale e ogni età, Carraro mostra al lettore come la piccolezza, la violenza e l'esasperazione dettate da un (corto)circuito capitalistico e borghese − e i due aggettivi vanno a braccetto, perché è nella società capitalistica e borghese (in una parola: occidentale) che emergono con maggior criticità i limiti del lavoro salariato, del matrimonio, dell'educazione religiosa ecc. − siano proprie di ogni essere umano.
Questo è il punto nodale dei balordi di Carraro: non vivono soltanto nei casermoni della Tiburtina o fra gli sfasciacarrozze della Togliatti; lo scatto d'ira, l'istinto omicida, la voglia di causare dolore li troviamo anche a Cinecittà, sui terrazzi dei Parioli, nei circoli letterari. C'è qualcosa, sembra dirci Carraro, in questo nostro modo di vivere che necessariamente porta a delle esplosioni. Che sia un ventenne con velleità artistiche o un cinquantenne incarognito contro la moglie per qualcosa accaduto dieci anni prima, il barile di polvere da sparo è pronto a far saltare tutto in aria. Basta una scintilla, a volte qualcosa di banale e infimo, per portare a un atto disperato.
Di questa disperazione è testimone il suicida del Licenziamento; lo è il marito della donna umiliata (benché traditrice del vincolo matrimoniale) che decide di prendere a fucilate il fratello nel Balcone; ma lo sono anche i ragazzi drogati dell'Altalena, che senza motivo decidono di allentarne le viti solo per vedere qualche bambino cadere e farsi male. Lo sono tutti quelli che di notte, dopo una cena fra amici o colleghi, sbottano e prendono a insultare o picchiare qualcuno per poi fuggire lungo il Tevere in preda a una corsa senza meta.
Di tutto questo ciò che lascia perplessi è la mancanza di una giustificazione. Non c'è teodicea che tenga, né una riflessione morale sul perché. Si può argomentare che la gente di Carraro sia violenta e voglia far del male perché piccola, effimera, gretta: eppure non sembra essere una risposta soddisfacente. Di fatto non c'è un perché: il male avviene, punto. E da lettori possiamo soltanto restare a fissare la pagina conclusiva del racconto, sgomenti e in attesa di ciò che verrà.
Una nota è necessario aggiungere, purtroppo: dei racconti altrimenti perfetti sono stati devastati da una scarsa cura del testo, che si manifesta attraverso incoerenza nelle norme redazionali e presenza massiccia di refusi. Un esempio fra tutti: molte l seguite da apostrofo sono in realtà degli 1 (1'altro anziché l'altro), così come molte I risultano delle l ([...]. lo sono anziché [...]. Io sono); viene da pensare a un testo acquisito tramite scansione con sistema OCR a cui poi non sia seguita una correzione di bozze. Questo è a mio avviso inaccettabile: uno scrittore come Andrea Carraro merita molto di più.
David Valentini
David Valentini