di Jean-Paul Sartre
Il Saggiatore, 2009 (1960)trad. di Domenico Tarizzo et al.
pp. 588
€ 15,00
Il piccolo Sartre si avvicina ai libri in punta di piedi, li
osserva dallo studio del nonno e ne brama il possesso. "Ero abbastanza snob da
esigere di possedere libri miei",
scriverà ormai quasi sessantenne nell’autobiografia “Le Parole” (Il Saggiatore,
traduzione di Luigi de Nardis), un “autoritratto con libri”. La proprietà dell’oggetto è l’identità dentro cui si riflette
quella del bambino, lo spazio dove può tranquillamente accrescersi a dispetto
delle carezze materne. A sopravvivere è un animo oppositivo: non “come gli
adulti”, vuol diventare il fanciullo, bensì contro di essi. I libri che
sceglie confliggono infatti con le letture di cui il nonno vorrebbe si
vestisse, il vecchio Hugo o lo schietto La Fontaine: il piccolo preferisce i
romanzi d’avventura. "Ancor oggi", annota Sartre "leggo più volentieri i volumi
della 'Sèrie Noire' che Wittgeinstein".
1947. Sarte è francamente di moda tra i giovani parigini (e
non solo tra quelli, un londinese, Colin Wilson, troverà la fortuna nei
maglioni accollati e attraverso l’opera “The Outsider”, Lo straniero, citazione del più celebre Étranger di cui Camus aveva tracciato l’indifferente profilo nel 1942).
Era il 1945, inoltre, quando la conferenza “L’Esistenzialismo è un umanismo” aveva infiammato
col soffio dell’impegno politico l’animo di quanti credevano d’aver raggiunto
la più autentica conoscenza del mondo per mezzo della nausea di cui avevano
letto nell’omonimo romanzo sartriano. Qualche mese prima era stata inaugurata la
rivista “Les Temps Modernes”, di cui Sartre scriverà, tra le righe di presentazione: «è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci
circonda».
Nella mente di ogni lettore si produce una teoria della
letteratura, la quale si manifesta nelle dita che sfogliano la costina, nello
sguardo che si lascia rapire dal frontespizio. Quelle che ne “Lo spazio
letterario” il critico Maurice Blanchot delinea quali “circostanze”, nei luoghi
di editori, esigenze finanziarie e obblighi sociali, paiono confinamenti
necessari perché la letteratura sia tale. “Cos’è la letteratura?”, s’interroga allora Sartre, in un testo che Il Saggiatore presenta al pubblico insieme a una
raccolta di moltissimi altri scritti del filosofo che abbiano a materia la
critica letteraria.
Se proprio si desiderasse ricercare una direttrice su cui
tenta di operare il saggio, si potrebbe scorgerla in quella della libertà, di
cui già la filosofia esistenzialista, attraverso “L’Essere e il Nulla”, aveva
fatto un crocevia della propria riflessione, in equilibrio tra metafisica e
antropologia: la letteratura si presenta per uno scrittore quale luogo di un
totale esercizio di libertà. Essa non si manifesta, al pari dell’arte pittorica,
dentro l’economia di una critica della realtà (il pittore può decidere di descrivere
una scena di guerra alla maniera della “Battaglia di Aboukir” di Jean Gros come
a quella della “Guernica” di Picasso) attraversa piuttosto l’immaginario per
provare un contatto con quella stessa realtà. La letteratura è da considerarsi
in ogni caso utopia in quanto propone l’istituzione di un ideale inesistente, essa è lontana dalla
descrizione e vicina alla produzione. Se, per Sartre, non si "dispongono i
significati" è perché per essi non basta rappresentazione grafica, c’è invece
bisogno di una fabbricazione che abbia a mezzo le parole. È in tal senso che si
può escludere la poesia dalle arti letterarie, giacché "i poeti rifiutano il linguaggio", lo piegano al
desiderio delle sensazioni e della conformazione visiva. Il significato si
realizza completamente nella prosa. Ogni oggetto di un racconto vive nient’altro che di relazione con gli altri:
quell’astuccio di cartone che contiene la bottiglietta d’inchiostro di cui
scrive Antoine Roquentin nelle prime pagine de “La Nausea”, esiste soltanto in
funzione della sua riflessione, così come quella stessa riflessione e lo stesso
Roquentin che la produce sono vincolati dalla presenza di quel “parallelepipedo
rettangolo”.
V’è, infine, il lettore, colui a cui ogni opera è dedicata.
Sartre ne suggerisce una genealogia e dimostra come egli, secolo dopo secolo,
sia ben lontano dal farsi universale, si conforma anzi in "gruppi potenziali" che decretano di un autore successo o miseria. Gruppi, già, classi sociali, le
medesime di cui si occupa la filosofia politica, quelle che attraverso lo
scrittore e i prodotti letterari affermano le proprie identità in forma di
ideologie. Fuori dal confinamento della letteratura come opera di speculazione,
Sartre propone uno sguardo che costantemente si preoccupi dell’uomo, ne difenda
prassi e visioni del mondo. Se, scrive, «lo scrittore è inutile» è perché egli dimentica, per cattiva memoria come per
buona astuzia, che il proprio strumento può fabbricare una libertà dove si
esprima «l’universale concreto all’universale concreto». Alla prosa il compito
di realizzare utopie.
Antonio Iannone
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