«Bisognava partire dal corpo immobile sull’asfalto e allargarsi a raggiera fino a raggiungere il cuore degli anni settanta, penetrare con tutta la passione possibile nel suo mistero insondabile. Non ero sicuro di riuscirvi».
Questa frase tratta dal prologo di Giorgiana Masi, Indagine su un mistero italiano, racconta bene le linee guida che Concetto Vecchio ha seguito per scrivere di un caso che ancora oggi non è stato risolto. Nelle prime pagine del libro l’autore rievoca il momento in cui la ragazza fu ferita a morte, il 12 maggio del 1977, trascinando così il lettore dentro la vicenda; la prosa è chiara, il ritmo sostenuto e i fatti si susseguono uno dietro l’altro, raccontati con particolari vividi.
Il giornalista di Repubblica prende le mosse da un’intuizione avuta durante la lettura del discorso di Marco Pannella a Montecitorio, il quale presagiva che ci sarebbe stata una tragedia, se non si fosse ristabilita la «normalità della circolazione», e avvertiva: «coloro che venissero eventualmente a commemorare quelli che cadono non sarebbero altro che i responsabili e i mandanti degli assassini»; parole pronunciate poche ore prima della morte di Giorgiana. Così Vecchio ricostruisce i fatti, quelli avvenuti nelle ore subito prima della morte della diciottenne romana e quelli necessari a ricomporre il quadro storico di quei sanguinosi anni settanta, fatti di vittorie politiche fondamentali, ma anche di terribili episodi di violenza e di terrorismo; fornisce così al lettore tutti gli strumenti per capirne le dinamiche e arrovellarsi con cognizione di causa su un delitto irrisolto. Vecchio procede dedicando capitoli interi ai protagonisti della vicenda e lo fa aggiungendo all’inchiesta nuovi spunti a 40 anni dalla morte di Giorgiana: le sue interviste a Pannella e Santone e i suoi scambi con l’avvocato della famiglia Masi, Luca Boneschi. Ed è qui che alla ricostruzione giornalistica della vicenda si intreccia la visione personale dell’autore: Concetto Vecchio racconta la sua inchiesta in prima persona, senza cedere ai patetismi, ma riuscendo a coniugare lo sguardo rigoroso del giornalista e quello umano di chi rivive gli avvenimenti in età adulta dopo averli sentiti nell’aria da bambino. Il cuore del libro, a mio parere, consiste nelle interviste e nei dei ritratti sfaccettati che il giornalista consegna al lettore: anzitutto quello di un memorabile leader politico come Pannella e anche quello di una personalità – piena di contraddizioni – come Cossiga; l’altro ritratto fondamentale, quasi un’ultima testimonianza, è quello dell’avvocato Boneschi, che lavorò al caso con abnegazione per più di vent’anni. E infine un altro contributo inedito al caso Masi è l’intervista a Santone, immortalato nella foto di Tano D’Amico che è diventata uno dei simboli di quel 12 maggio 1977, a testimoniare che non c’erano solo forze di polizia in divisa ma anche in borghese e armati.
Concetto Vecchio non scrive di verità preconfezionate o influenzate da convinzioni ideologiche, ma racconta i fatti collocandoli nel loro contesto storico, sociale e politico.
Quale la necessità di un libro su un caso rimasto irrisolto?
È un libro su un gesto: una persona ha sparato e ucciso una ragazza che stava per affrontare gli esami di maturità. Fino a che punto ci si può spingere con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica per arrivare alla verità? Fin dove posso arrivare con la mia penna e il mio taccuino? E la verità come confligge con la memoria, ché anche la memoria ha i suoi limiti; di più: la memoria può essere ingannevole. C’è questa giovane donna stesa sull’asfalto caldo di una sera di maggio, uccisa in una pubblica via davanti a centinaia di persone, eppure nessuno ha visto nulla. Oppure: qualcuno ha visto ma ha taciuto. Così per 40 anni. Questa è la storia di Giorgiana. Com’è stato possibile? Quindi questo libro non è un’inchiesta in senso stretto, è piuttosto la storia di un’ossessione.
Al momento in cui hai deciso di scrivere di Giorgiana, quali sono state le tue priorità?
Ho letto le carte per un anno. Era una mole enorme di documenti. Molti in contraddizione gli uni con gli altri. Li ho dovuti ordinare, imporre una gerarchia. Poi ho iniziato ad andare sui luoghi e a interrogare i testimoni. Volevo soprattutto rispondere a due domande: cos’è successo su quel ponte, e soprattutto: perché è successo? La morte di Giorgiana implica anche dei dilemmi morali. Se Pannella non avesse forzato il divieto di manifestare di Cossiga, e se Cossiga non avesse militarizzato la città, non ci sarebbe stato il delitto. I due come fecero i conti con la morte di Giorgiana? Nel rispondere a queste domande – fare molte domande è l’essenza del giornalismo – ho cercato di essere il più nitido possibile. Il più onesto possibile: onesto con me stesso, anzitutto.
Racconti l’inchiesta in prima persona, scegliendo così di non risultare impersonale e di intrecciare anche i tuoi ricordi alla descrizione di documenti, fatti e persone coinvolte nel caso Masi. Come sei arrivato a questa scelta?
Scrivere in prima persona è stato un fatto naturale. Sono stati tre anni di solitudine. Come si racconta una storia come questa, 40 anni dopo, quali scogli bisogna superare? Perché nessuno, finora, aveva mai scritto prima di Giorgiana, forse perché questa storia rappresenta un tabù? Ecco, questo andava raccontato in prima persona, con tutta la tenerezza possibile.
Studiando questo caso che idea ti sei fatto di quei giorni? Secondo te come potrebbe essere andata?
Come siano andate le cose credo che emerga chiaramente alla fine del libro: con molti dubbi, con molta sofferenza.
Studiando a fondo gli anni settanta, ti sei mai ritrovato a fare confronti tra le giovani generazioni di quegli anni e quelle di oggi?
Guardare oggi agli anni settanta è come guardare al Rinascimento o all’Ottocento: un mondo irriconoscibile, e specialmente per un giovane nato dopo la caduta del Muro. In quegli anni la politica dominava ogni gesto, e la violenza come pratica politica purtroppo era accettata. Era una società di una densità incredibile. Ora con molta politica c’è anche molta fiducia nel futuro, e questa è una differenza abissale con il presente, ma non voglio cadere nell’errore di dire che quei giovani erano migliori di quelli adesso, un po’ perché sarebbe consolatorio, un po’ perché alla fine non è vero.
C’è un libro in particolare a cui ti sei ispirato per condurre l’inchiesta? Quali sono i giornalisti che negli anni hai preso a modello?
Molti libri, letti nel corso degli anni. Su tutti La promessa di Durrenmatt, che è la storia di un giallo senza soluzione. Nei primi anni della professione ho avuto come modelli Giorgio Bocca, Corrado Stajano, Giuseppe Fiori. Anche Ermanno Rea con Mistero napoletano è stato importante. Anatomia di un istante di Cercas e L’avversario di Carrère, sono letture più recenti. E infine c’è lo Sciascia civile, di fronte al quale ci sente dei nani.
Il libro dimostra che non volevi scrivere pagine influenzate da ideologie, né confermare teorie preconfezionate. C’è stato qualcuno che non ha gradito la tua ricostruzione?
Non avevo una tesi da dimostrare. Poi alla fine la tesi c’è, credo, ma è il frutto di un percorso, la tesi si è come imposta da sé. Molte convinzioni sono mutate nel corso del mio viaggio. Inizialmente ero convinto che Cossiga avesse ordinato la presenza dei poliziotti in borghese quel giorno nelle strade di Roma: non ne sono più così certo. Anzi, penso che alla fine forse anche Cossiga venne ingannato, il che spiega il suo imbarazzo nel corso dei decenni seguenti. Tacque su Giorgiana per 24 anni: un silenzio carico di rumore. Credo che il libro non sia piaciuto ai radicali, perché smonta in parte la storia che ci avevano raccontato in questi anni, anche se lo dico con rispetto: i radicali sono stati gli unici a invocare inutilmente delle commissioni d’inchiesta sulla morte di Giorgiana e a onorare la memoria di questa ragazza. Molti militanti dell’ultrasinistra mi hanno accusato di revisionismo perché ho intervistato Santone, il poliziotto della famosa foto di Tano d’Amico: nessuno lo aveva mai interpellato finora sui quei giorni. Un’accusa risibile. Per 40 anni Santone era rimasto una fotografia. Se non lo avessi intervistato avrei fatto meglio a cambiare mestiere.
Nel libro ritroviamo un bellissimo ricordo di Luca Boneschi: l’inchiesta si apre con il tuo viaggio a Milano perché ti concesse di studiare le sue carte e si conclude con le ultime email che vi siete scambiati. Scrivi che ti disse “Temo che non ne ricaverà nulla”, ma a posteriori cosa trai da questi anni passati a studiare il caso di Giorgiana?
Luca Boneschi è il mio alter ego in questa storia. È l’unico che cerca la verità fino in fondo, con ostinazione, ma è anche l’unico che paga. A un certo si ritrova completamente solo, abbandonato da tutti. La sua è quindi la storia di una sconfitta, ma c’è una grandezza epica in questo suo impegno civile che non approda a nulla: a ben vedere solo in apparenza non approda a nulla, perché alla fine tutto resta, se solo si vuol andare a vedere, come le carte che aveva per fortuna conservato “finché non sbiadiranno”.
Intervista a cura di Lorena Bruno
@Lorraine_books