di Louise Doughty
Traduzione di Manuela Faimali
Bollati Boringhieri, 2017
Pp. 355
18 €
Ad un certo punto si ha come la netta sensazione che Louise
Doughty, scrittrice già assurta agli onori della cronaca e della celebrità
mondiale con il fortunatissimo Fino in fondo del 2014, sia
stata toccata dalla grazia. Dalla grazia di essere riuscita a scrivere un
romanzo come questo Il buio nell'acqua, edito, ancora una
volta, da Bollati Boringhieri, che, per una buona metà, appare come
una perfetta costruzione letteraria. Teso, appassionante e misterioso il
giusto: la prima parte de Il buio nell'acqua è una specie di trattato pratico
su come si debba scrivere un romanzo latamente inteso "di
spionaggio". Poi, nel prosieguo del libro, qualcosa si rompe, si rompe
anche in maniera sensibile e importante, ma la bella sensazione, "il buon
sapore" che si ha nel leggere le prime pagine rimane, come rimane
l'idea di poter affermare che questo sia un ottimo volume, che poteva essere forse
perfetto per il cinema.
Ma andiamo per ordine. La trama non è delle più
semplici con il protagonista, Nicolaas Harper, che viene descritto dall'autrice
in maniera molto sapiente: si fa fatica infatti, almeno nelle prime battute, ad
inquadrarlo, a comprendere se egli sia, sforzando un po' i concetti, "un
buono" oppure "un cattivo", una persona assolutamente
equilibrata oppure con qualche rotella fuori posto. Tuttavia
quest'indeterminatezza sulla natura del personaggio principale non fa che
renderlo affascinante, nella sua figura di mezza spia e mezzo informatore di
società occidentali, catapultato, più o meno consapevolmente, nel bel mezzo del
Sud-Est asiatico, segnatamente in Indonesia. Abbiamo usato l'avverbio
consapevolmente perché se sul passaporto di Nicolaas compare la dicitura
"nazionalità olandese", egli in realtà è figlio di una delle oltre 17.000
isole dell'enorme Paese asiatico. Già, perché la sua piccola storia
personale, figlio di un indonesiano e di una donna olandese, si intreccia con
la grande Storia, quella del colonialismo occidentale in Asia e quella della Seconda
Guerra Mondiale.
Veniamo infatti a sapere, con superbi tocchi da parte
della scrittrice nei primi due, splendidi, capitoli, a poco poco qualcosa di
più sulla vita di Harper. Orfano di padre a seguito
dell'invasione del Giappone dell'Indonesia, egli ha vissuto tra Olanda, la
stessa Indonesia e gli Stati Uniti, in un continuo andirivieni dove l'unico
minimo comune denominatore è l'incertezza. Tuttavia il bambino prima e il
ragazzo poi cresce sveglio, è portato per le lingue che assimila e impara in fretta. Poi, ad un certo punto della sua seppur giovane vita, nonostante una una madre
"distante e distratta" per tutta una serie di motivi, riesce a
trovare una casa, un porto franco dove poter "riposar le stanche
membra".
Questo posto è la casa dei "nonni", o per
meglio dire dei genitori del secondo marito della moglie, una simpatica coppia
di afroamericani. Anche in questo caso il contributo di Louise Doughty è eccezionale: la scrittrice infatti, nella pur semplice descrizione di un bambino meticcio all'interno di un nucleo famigliare nero nell'America degli anni Cinquanta-Sessanta, introduce il tema razziale, con grande, grandissima eleganza abbinandogli quello, giustappunto, della genitorialità, dei legami che il bambino cerca e trova nel suo nucleo "famigliare".
Ma prima di arrivare qui, in un perfetto gioco di presente e passato che s'intersecano, vediamo l'Harper adulto, l'Harper cinquantenne, che fa la conoscenza di una donna in un bar a Bali. Egli si è rifugiato in montagna a seguito di alcuni disordini scoppiati in città, ma una sera decide di fare due passi in centro e qui, appunto, incontra la donna. Quella che avrebbe potuto essere una semplice storia di sesso, magari anche un po' squallida, diviene nelle mani della Doughty, un impasto narrativo delicatissimo, in cui, ancora una volta lentamente e in maniera elegante, si vengono a scoprire informazioni e dettagli sulla vita dei due.
Noi non vi sveliamo altro sulla trama, non sarebbe giusto e non sarebbe bello. Vi basti sapere però che almeno per una buona metà questa materia narrativa viene trattata con i guanti da Louise Doughty, che invece, occorre evidenziarlo, nella parte finale si perde un po', come schiacciata da una vicenda che non si sa bene come far finire e che, non terminando con il più classico dei "botti" che una storia di spionaggio esigerebbe, lascia una certa sensazione di mancanza al lettore.
Ciò nondimeno va anche osservato come Il buio nell'acqua non sia propriamente una spy-story alla stregua di una di John Le Carré o Graham Green, seppur se ne trovino delle influenze. Il tocco dell'autrice si sente e si sente molto, nel bene e nel male, rendendo questa storia una storia assolutamente personale. Certo, si sarebbe potuto forse fare di meglio per districare la vicenda, ma quei due primi capitoli, con quel finale tragico eppure non patetico, sono grande letteratura, sono grandi storie sotto i nostri occhi: sono un viaggio di sola andata negli incubi dell'Occidente in Estremo Oriente. Sono la storia di persone travolte dall'incessante scorrere del tempo.
Ma prima di arrivare qui, in un perfetto gioco di presente e passato che s'intersecano, vediamo l'Harper adulto, l'Harper cinquantenne, che fa la conoscenza di una donna in un bar a Bali. Egli si è rifugiato in montagna a seguito di alcuni disordini scoppiati in città, ma una sera decide di fare due passi in centro e qui, appunto, incontra la donna. Quella che avrebbe potuto essere una semplice storia di sesso, magari anche un po' squallida, diviene nelle mani della Doughty, un impasto narrativo delicatissimo, in cui, ancora una volta lentamente e in maniera elegante, si vengono a scoprire informazioni e dettagli sulla vita dei due.
Noi non vi sveliamo altro sulla trama, non sarebbe giusto e non sarebbe bello. Vi basti sapere però che almeno per una buona metà questa materia narrativa viene trattata con i guanti da Louise Doughty, che invece, occorre evidenziarlo, nella parte finale si perde un po', come schiacciata da una vicenda che non si sa bene come far finire e che, non terminando con il più classico dei "botti" che una storia di spionaggio esigerebbe, lascia una certa sensazione di mancanza al lettore.
Ciò nondimeno va anche osservato come Il buio nell'acqua non sia propriamente una spy-story alla stregua di una di John Le Carré o Graham Green, seppur se ne trovino delle influenze. Il tocco dell'autrice si sente e si sente molto, nel bene e nel male, rendendo questa storia una storia assolutamente personale. Certo, si sarebbe potuto forse fare di meglio per districare la vicenda, ma quei due primi capitoli, con quel finale tragico eppure non patetico, sono grande letteratura, sono grandi storie sotto i nostri occhi: sono un viaggio di sola andata negli incubi dell'Occidente in Estremo Oriente. Sono la storia di persone travolte dall'incessante scorrere del tempo.
Mattia Nesto