di Elmore Leonard
Einaudi, 2017 (1972)
traduzione di Stefano Massaron
€ 17,50 (cartaceo)
Era la prassi giudaica che prevedeva 40 frustate meno una.
S’imponeva prudentemente di tralasciare l’ultimo colpo per non correre il
rischio che il boia, travolto dall’entusiasmo, infrangesse la legge mosaica
fissata nel Deuteronomio. Essa imponeva, per l’appunto, 40 frustate. Anche
Paolo di Tarso subisce, immagino suo malgrado, questa usanza. Lo racconta nella
sua seconda lettera ai corinzi dove dice di avere ricevuto «cinque volte dai
Giudei quaranta colpi meno uno». A dire il vero c’era un ulteriore
accorgimento, sempre per non eccedere il 40 imposto da Mosè. Il flagello con
cui si batteva il condannato aveva 3 funicelle, ogni frustata valeva quindi
altrettanto e i colpi effettivi, in sostanza, erano 13.
Il versetto viene citato dal
nuovo direttore del carcere di Yuma, un pastore protestante molto ingenuo ma
coerente nel suo fervore religioso, a due
prigionieri: Raymond San Carlos, di origine apache, e Harold Jackson, un ex
soldato nero. Entrambi assassini, dovranno passare a Yuma, un inferno di
pietra, il resto della vita. O meglio, in parte a Yuma e in parte a Florence,
perché la prima prigione sta per essere chiusa definitivamente e i suoi ospiti
verranno trasferiti nella seconda. Siamo nel 1909.
Il romanzo si trasforma, dunque,
in una vicenda di pseudo-redenzione per Raymond e Harold e di attesa per la bandaccia che spadroneggia in carcere:
quattro figuri che stanno studiando un piano per approfittare del trasferimento
ed evadere. Seguirà questo loro progetto, contando di unirsi, una donna,
immancabilmente eccitante, che il capo delle guardie spia ogni sera mentre fa
il bagno nella stanza a lei riservata.
L’arrivo del predicatore a Yuma
dopo un viaggio in treno – nella cittadina dell’Arizona abbiamo sempre a che
fare con un convoglio che sferraglia sui binari e questo fin da “Quel treno per
Yuma”, pellicola tratta da un racconto dello stesso Elmore Leonard – rompe la
rigidità delle consuetudini che regolano
la quotidianità della prigione. In particolare, il direttore manifesta una
spiccata umanità per i due soggetti protagonisti sopra citati che dopo una
disavventura causata da Frank Shelby, il boss della combriccola dei quattro, e
un soggiorno assieme al buio nella cella di rigore, la cosiddetta tana dei serpenti, diventano i
destinatari di singolari “omelie” a metà fra storia, antropologia e religione.
Così, a forza di sentirsi
ripetere strani, alle loro orecchie, discorsi Raymond San Carlos e Harold Jackson si convincono di essere due
guerrieri, rispettivamente pellerossa e zulu. E, il tutto con il permesso
del direttore, cominciano a fabbricarsi lance rudimentali dentro al carcere,
fra lo stupore delle guardie, e a correre dietro a un auto nel deserto per
raggiungere obiettivi straordinari di resistenza alla fatica e alla sete, fra
lo sbigottimento degli altri carcerati. Più che quaranta colpi in meno, il
nuovo corso del direttore, abbuona ai due, in espiazione dei loro omicidi,
tutte le frustate.
Nonostante l’acquisita vigoria fisica e morale, Raymond e Harold non paiono
nutrire chissà quali pretese. Non manifestano impulsi violenti, anzi subiscono ancora
piuttosto passivamente un’ulteriore lezioncina dalla banda di Shelby, sembrano
mossi da sincere intenzioni di riscatto finché non giunge il trasferimento a Florence. In treno ovviamente. Durante il quale,
lo immaginerete, ne capitano di tutti i colori e anche Raymond e Harold si
scoprono meno sprovveduti di quanto lasciassero presagire. Fino a un vaffanculo finale.
Pare che Elmore Leonard abbia
scritto di meglio. Non stento a crederlo. Anzi, vorrei proprio vedere. Di certo
la sua produzione è stata ampia tipo le praterie della nuova frontiera.
Campione del genere western, ha collaborato con il cinema e ha scritto questo
romanzo nel 1972. Mi
chiedo cosa abbia spinto Einaudi a riproporlo dopo 45 anni. Vero è che la casa
editrice dello struzzo sta pubblicando molte opere di Leonard e che questa era
addirittura attesa dagli amanti dell’autore. Mi sono lasciato prendere anch’io
dal gusto della scoperta ma sono rimasto
deluso. E mi chiedo anche quali siano le logiche che conducono a certe
riverenze da quarta di copertina: «Una prosa tutta particolare, molto
letteraria, in cui ogni piccolo gesto e qualsiasi parola pronunciata sfoggiano
una solennità quasi chirurgica». Manca solo un amen. Andate a scoprire chi lo
ha scritto. Se ci crede veramente significa che oramai ha poco da dire.
Invece tutto procede nella norma, il finale arriva abbastanza scontato, manca il
lampo di genio, c’è perfino un passaggio senza conseguenze – mentre ti
aspetti che ne abbia di molte – quando lo stesso direttore vede il corpo nudo
della donna prigioniera insaponato nella tinozza. Ma lo stordimento iniziale resta
lì, senza sbocco narrativo. E si rivela, di conseguenza, inutile. Ci
sono dialoghi di maniera, con due o tre parolacce e un accenno di cattiveria, e
le stesse parti ironiche, in genere affidate ai monologhi del religiosissimo
direttore del carcere, diventano poco a poco stanchi intermezzi fra una bravata e
l’altra di Frank. In fondo, più che quest’ultimo dell’agognata evasione, siamo
noi lettori a restare in attesa, per tutto il libro, che accada veramente
qualcosa di… western.
Marco Caneschi