Nuoro, 13 luglio 2017, ore 19.30
Cortile del Museo del costume
Cortile del Museo del costume
È quasi tempo di Quasi Grazia, a Nuoro. Il 27 settembre, data del debutto della pièce teatrale scritta da Marcello Fois in omaggio alla Deledda pubblicata da Einaudi alla fine del 2016, si avvicina sempre più, e soprattutto nel capoluogo barbaricino cresce la curiosità per l’allestimento di Veronica Cruciani che vedrà la scrittrice Michela Murgia nel ruolo dell’autrice insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926. In attesa che il sipario del Teatro Eliseo si apra finalmente sui tre atti del testo foisiano, lo scorso 13 luglio lo scrittore e la studiosa Angela Guiso hanno conversato di fronte a un pubblico attento e numeroso nel cortile del Museo del costume di Nuoro, nel corso di una serata che ha intervallato i loro dialoghi alle belle letture sceniche di due attori del cast ufficiale dello spettacolo (Lia Careddu e Valentino Mannias, con la partecipazione finale della stessa autrice di Cabras, i cui appunti paralleli sulla lavorazione e sulle prove in corso trovano attualmente espressione anche nel bel blog quasigrazia.wordpress.com). Ultimo di una serie di appuntamenti dal titolo Parole di Grazia. Parole su Grazia, dedicati dall’ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico) alle più recenti pubblicazioni riguardanti l’autrice nuorese, l’affollato incontro ha offerto spunti di riflessione ulteriori rispetto alla mera presentazione del volumetto – tra i quali il senso del limite e del ridimensionamento nella vita come nella letteratura, il valore intrinseco di quest’ultima e l’importanza dell’invidia positiva nel lavoro dello scrittore. Ma è stato, anche e ovviamente, occasione privilegiata per comprendere al meglio alcune soluzioni drammaturgiche adottate da Fois, chiamato a rispondere delle scelte precise operate in un testo pur breve (poco più di un centinaio di pagine) ma talmente sentito da richiedere una gestazione di oltre venticinque anni.
Marcello Fois, Agela Guiso e il Presidente dell'ISRE Giuseppe Pirisi |
La pièce, come è stato sottolineato da Angela Guiso, sembra porsi come superamento della massiccia operazione biografica che è stata recentemente condotta sull’autrice nuorese: ben tre biografie – a firma di Maria Elvira Ciusa, Luciano Marrocu e Rossana Dedola – sono state date alle stampe nell’anno delle celebrazioni deleddiane appena trascorso. Dunque è come se Fois, da parte sua, avesse scelto di andare oltre il discorso meramente documentario per mostrare una Deledda in carne e ossa sulla scena, libera di esprimersi, muoversi e agire, e dunque il vero e proprio farsi della persona di Grazia; tutto questo optando per una cronologia progressiva e tuttavia non priva di suggestive compresenze temporali (specie nel Secondo e nel Terzo Atto, ambientati rispettivamente a Stoccolma e a Roma), e che nella chiusa mescola durata teatrale e tempo fantastico della narrazione optando per una ripresa originale di tre racconti deleddiani (Il cinghialetto, Un uomo e una donna, La martora) che vengono sviscerati dai personaggi in scena per mostrare l’assolutezza – e dunque l’atemporalità, l’eternità, la classicità – della poetica dell’autrice. Tuttavia, nel suo incipit coincidente con la partenza della giovane scrittrice dalla casa natale, Quasi Grazia è, con tutta evidenza e a sua volta, un prosieguo del romanzo autobiografico Cosima (1936): una coincidenza che porta con sé il rischio di escludere il passato formativo nuorese dell’autrice, ma che Fois motiva con una ricerca programmatica di semplicità, una scelta di obbedienza all’imperativo del raffinamento drammaturgico, omaggio alla fatica dello scrivere e conseguenza di una forma massima di rispetto per un’artista stimata alla stregua di Alessandro Manzoni proprio per avere scelto di essere una scrittrice “sarda” ma non “dimostrativa”, ovvero più interessata all’urgenza del racconto.
Nel discorrere di uno spettacolo che ricerca volontariamente aspetti di metateatralità e metaletterarietà – Michela Murgia nel ruolo della protagonista, con tutto ciò che ne consegue, è solo l’esempio più macroscopico a riguardo – Angela Guiso si è poi soffermata sul ruolo importante della figura materna, centrale già in Cosima, caratterizzata da una severità e da un’asprezza di fondo che sembra facilitarne la quasi automatica personificazione con l’intera Sardegna. L’ambizione di Fois, tuttavia, è maggiore, convinto com’è che il “discorso materno” riguardi i sardi attraverso tre grandi madri: Grazia Deledda per la letteratura, Maria Lai per le arti visive e Eleonora d’Arborea per gli aspetti politici e identitari. La sua proposta di una madre come quella deleddiana, intenta a ridimensionare la figlia ambiziosa con un’ostinazione capace di sfociare nel complesso irrisolvibile e nell’incubo persecutorio, è anche un continuo rimando alla dialettica tra l’umiltà e la presunzione necessarie nel mestiere dello scrivere e del creare come in quello universale dell’esistere. E la madre di Grazia, proprio in questo, è anche l’esatto opposto del genitore contemporaneo, ovvero rappresenta l’antico modello di autorevolezza capace di fare sentire i figli “in formazione” per l’intera durata della vita; un genitore con il coraggio sempre più raro dell’impopolarità, e infine capace di trasmettere questa stessa vis anche alla figlia, specialmente riguardo le proprie frequentazioni intellettuali, se è vero che la stessa Grazia non fu mai indulgente nei confronti dei suoi amici artisti, pittori o scrittori che fossero (celebre la sua stroncatura al romanzo Don Zua di Antonio Ballero, ricordata anche nel corso della pièce, al quale consigliò vivamente di posare il pennino e riprendere in mano il pennello). Un bell’invito - tra le righe, tra le battute - alla coerenza e all’onestà critica, dunque, in tempi in cui la recensione si confonde troppo spesso con la positività meccanica dello spot pubblicitario, mentre l’espressione pubblica della propria opinione perde o prende valore in rapporto alla sua smisurata frequenza o alla sua infrequente misura.
Proseguendo nell’analisi dei personaggi appartenenti alla famiglia della scrittrice, Guiso ha poi sottolineato la presenza significativa, sebbene problematica, del fratello Andrea – l’unico vero sostenitore della sorella – e l’assenza scenica dell’altro, Santus, che tuttavia la sera prima della partenza si fa coinvolgere in una rissa per difendere l’onore di Grazia e della sua professione. Secondo Fois, tuttavia, questa non è tanto una spia del rapporto differente con i due, quanto conseguenza della scelta deliberata di ignorare le altre sorelle Deledda (Peppina e Nicolina) per focalizzarsi invece su due figure maschili che altro non sono se non le proiezioni dei figli che verranno; due figli che, detto per inciso, già nell’originalità al limite della bizzarria della loro onomastica – Sardus e Franz – sveleranno quello che lo scrittore definisce il “vezzo da rockstar” della Deledda, che anche in questo modo “subliminale” confermava la consapevolezza del proprio ruolo all’interno del panorama letterario e culturale a lei coevo.
E Nuoro? Alla città che Guiso rintraccia nella pièce in una visione quasi “da lontano”, evocata nelle morti dei congiunti e ricordata infine come paese livoroso reso città dall’operazione artistica della scrittrice, Fois ribatte come il capoluogo della Barbagia sia divenuto, di fatto, Provincia nel 1927, in modo non secondario rispetto al conferimento del Premio Nobel, e come l’espressione “La mia fortuna”, più volte ripetuta da Grazia all’adorante marito Palmiro nel corso dei tre atti, possa essere riferita transitivamente proprio a Nuoro e alla Sardegna tutta, che con la sua ostilità decennale e coriacea ha inevitabilmente rappresentato, per la Grazia giovane come per la Grazia matura, l’ostacolo da superare e il limite da valicare. Tutt’altro feedback, insomma, rispetto a quello offerto dal personaggio del giornalista Ragnar, che nel lodare (anche subdolamente) l’opera deleddiana, nel corso dell’intervista per la testata svedese per la quale lavora, risulta come investito di una “delega” utile a ricordarne tutti i principali topos. Una scelta volontaria di straniamento, questa, che si lega al rimando alle già citate novelle dell’ultimo atto: Il cinghialetto, voluta dall'autore per semplici motivi autobiografici; Un uomo e una donna, considerata vero e proprio paradigma deleddiano; La martora, ritenuta esempio magistrale di gotico. L’alternanza delle voci di Palmiro e della madre di Grazia, che le sviscerano e ne mostrano la varietà di accenti e di spunti, diventa qui utile per delle riflessioni generali sulla lettura e sulla scrittura, azioni foriere di bellezza in chi le compie e in chi, con le proprie opere, è capace di “innescarle”, di “accenderle” nel prossimo.
Proprio perché autrice di una letteratura tutt’altro che consolatoria, e tenendo conto della durata del suo valore, la Deledda di Fois dimostra come proprio la consolazione non debba esistere come requisito della buona prosa o della buona poesia. Ricordando come solo le culture depresse cerchino forme untuose di conforto e di rassicurazione nell’arte generalmente intesa, lo scrittore ha colto l’occasione per sottolineare la necessità della letteratura di essere regno privilegiato della divagazione, della descrizione e della perdita di tempo, dunque cosa altra rispetto al cinema o alla serialità del piccolo schermo, i cui codici espressivi hanno generato l’ambiguità tutta contemporanea della confusione tra lettore e spettatore, e il cui triste esito è la stampa – che non conosce crisi – di libri “per guardanti” e non “per senzienti”. L’invito a fare come Grazia Deledda, in questo senso, parte dal ricordo del suo porsi volontariamente fuori dal panorama italico, e del suo essere sempre avanti e sempre oltre nei suoi prediletti riferimenti artistici: la letteratura, quando è veramente tale, è fonte autentica di “contraddizione” salvifica, ed è alimentata dall’invidia per il talento, quell’unica invidia possibile che, in qualità di tensione positiva dell’animo, è destinata a non venire mai meno negli scrittori e nelle scrittrici di razza.
Cecilia Mariani
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