La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia
di Jean-Luc Nancy
Centro editoriale dehoniano, 2017
a c. di Roberto Maier
pp. 72
€ 8,50
Ciò che la veglia reca in dono è la vita brulicante della
realtà che alle fantasie del sonno è strappata dalle forme della coerenza. «Ogni volta che vengo al mondo, ogni giorno, quindi, le mie palpebre si
aprono su quello che non si può chiamare uno spettacolo», scrive il
filosofo Jean-Luc Nancy a principio del suo testo sulla corporeità del teatro,
in Italia per Cronopio, con la traduzione di Antonella Moscati, «Essere nel mondo non
è uno spettacolo. Tutt’altro», incalza, dove lo spettacolo è, per citare
quei Sei personaggi per mano di
Pirandello che di scene s’intendono allo stesso modo che di vita, quel “far la
scena”, la forma di una conoscenza estranea alla vita. «I suoi
attori», afferma (recita, si
potrebbe scrivere) il figlio al capocomico «stanno a guardarci da
fuori». Proprio quel “da fuori” che permette una confusione tra
“finzione” e “realtà” all’uomo è inibito: nel mondo non si vive, semplicemente
si è parte di esso, fuori di semplice posizione. Lo spettacolo che si dispiega a
chi è strappato dal sonno, quel sipario che d’un tratto si dischiude, rotto
magari dal trillo di una sveglia, non presenta alcun fondale dipinto: il
soggetto ormai vigile è parte della sua stessa messa in scena.
Il carattere di mancata conoscenza dell’avvenire, all’attore
precluso in quanto ha letto una partitura come dal Libro del Destino, non permette all’individuo che
una gestualità appena accennata in cui si manifesta una sorta d’orrore
della mancata conoscenza. Così, scrive Nancy, il carattere di «immaterialità» del vivere, non è che una rappresentazione, una
messa in scena, comica o drammatica che sia. Questa soggettività «non è
corpo. Non arriva al […] corpo». Il corpo, dunque: l’esposizione totale
del soggetto al mondo. «C’è un mondo, questo mondo non può esistere
senza un orientamento univoco in rapporto a me», annota Jean-Paul Sartre
ne “L’Essere e il Nulla”, seguito da Maurice Merleau-Ponty che in un passo di
“Fenomenologia della Percezione”, descrive il corpo quale immerso in
un’«estasi dell’esperienza».
Estasi, ek-stasis, “star fuori di sé”, ancora il luogo del corpo è quello
di una esposizione universalizzata nel mondo, esso non è allora che l’opera
d’arte che l’altro osserva completamente e che il soggetto osserva soltanto nel
modo del frammento (la mano che scrive, il riflesso allo specchio e così via). Interstizio
tra il visibile e l’invisibile, il corpo, al modo in cui la trattazione
estetica che si presenta quale introduzione a “Le parole e le cose” di Michel
Foucault ridisegna proprio con i profili di visibile/invisibile le forme della
categorizzazione logica. Quale “rappresentazione” della realtà è quella che il
pittore de “Le damigelle d’onore” sulla tela tratteggia o di cui si compiace?
Di quale mimesis, imitazione del
reale, si macchia? Lo spettatore, l’appassionato d’arte che soppesa l’opera, il
lettore che apre il testo di Foucault e osserva il dipinto apposto a prologo dell’opera, diviene eroso dal desiderio, poiché, scrive Nancy nel saggio “L’immagine – il distinto” (in Italia, parte della raccolta "Tre saggi sull'immagine", ancora per Cronopio) «l’immagine o è desiderabile o non è
immagine». Ogni estetica è dunque al
di qua del principio di piacere. Così, proprio in tale estetica
desiderante, si manifesta un’etica altrettanto atomistica. La comunità
necessita d’essere «inoperosa», vale a dire utile dentro la
totalità di un “corpus”, tra le frammentazioni.
«Se in qualche modo abbiamo accesso a una soglia, ciò
avviene poeticamente», così Nancy definisce l’ambiente dentro cui
opererà “La custodia del senso”, a cura di Roberto Maier per il Centro Editoriale Dehoniano. “Fare la poesia”, declama il primo dei due interventi che il saggio
contiene, ben rammemorando la medesima radice delle parti, il verbo greco
“poieō”, fare. Poesia è dunque ciò che alla tecnica più si avvicina e ciò che
da essa più si guarda, se il dizionario Littrè, pur citato dal filosofo, ne
edifica una narrazione a un tempo letteraria e fuori di letteratura. Della
poesia si può dire nient’altro che essa sia “poetica”, «identica a sé
stessa». Eppure, se l’etimologia è sottratta proprio al mondo
dell’artigianato e della manodopera, è perché in questo suo senso, qualcosa si
produce: ci sarà pure un ingranaggio capace di smuovere l’identità perché
prepari un accesso al significato della realtà. Ecco, questo non può che avvenire
attraverso un «rifiuto persistente», la trasparente lucidità
della materia poetica.
Anche la dialettica mette in opera, allo stesso modo, il sottrarsi dell'accesso come verità dell'accesso. Ma facendolo lo tratta come un problema da risolvere, un compito il cui carattere infinito genera tanto una difficoltà estrema, quanto la promessa, sempre presente e sempre regolatrice, di una soluzione e dunque di un'estrema facilità. La poesia, invece, non affronta problemi: essa si fa nella difficoltà.
L’incessante sottrarsi della poesia, che lo spazio permette
come la tela il dipinto, risolve la costruzione di una verità non più
comunicabile bensì manifesta. «Poesia dice di più di quello che poesia
vuol dire», in quanto l’articolazione del senso è ormai sottratta al
dire prosaico della dialettica; a questa resiste priva di tesi da esporre e
biografie da romanzare. Per mezzo della poesia, insomma, non si parla di ogni cosa, ma ogni cosa parla e
dispone «il parlare in mezzo alle altre cose». Quale mimesis, allora? L’apparire, invece, di
una crepa tra il visibile e l’invisibile che sia autenticamente un’apertura di
senso. Lo spazio della poesia, un corpo poetico.
Antonio Iannone