di Omar Di Monopoli
Adelphi, 2015
pp. 205
€ 18
Torniamo
a parlare di scrittura, finalmente. Non di storie. O di un libro. Di scrittura.
E nel panorama nazionale non è semplice né scontato. Mi era capitata la stessa
sensazione con i cinghiali
di Giordano Meacci. Saranno fissazioni le mie ma oramai prediligo lo sforzo
dell’autore in vista di un linguaggio che sia di sana e robusta costituzione,
aspetto rilevante dell’opera e voce dell’autore stesso.
Nel folgorante romanzo di
Omar Di Monopoli, una scoperta dagli esiti straordinari, le
costruzioni sintattiche vernacolari, di matrice messapico-campana, si fondono
con un italiano elevato per giungere a un
dialetto unico che non è il salentino puro anche se siamo nel
cuore del triangolo Lecce-Brindisi-Taranto. Gli somiglia. Ciò che importa,
tuttavia, è che diventi un suono costante e inconfondibile, fin
dalla prima riga.
Questo lessico,
da insolito, in un battibaleno diventa familiare, ha il pregio di non stancare,
anzi permette di addentrarci nell’ipnotico sviluppo della trama fino a
convincerci che è la sola lingua
possibile per creare la giusta atmosfera. Stavolta non posso esimermi dal riportare un esempio concreto.
Proprio l’incipit:
«L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonare la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima, allignando ostinata anche nel soggiorno ronzante di mosche incattivite dal caldo, quando il pick-up color caffellatte, un Volkswagen sbiadito e smarmittato che sembrava pronto per il ferravecchio, spuntò oltre il limite del cancello e si fece strada lentamente sul vialetto soffiando neri sbuffi di gas di scarico e smuovendo piastre di fango raggrumato».
Le
mosche incattivite dal caldo
potrebbero benissimo essere quelle delle scene iniziali di “C’era una volta il
west”, con Charles Bronson-Armonica che prova a catturarle in una fetida
stazione. Il mezzo, seppur moderno, che si fa strada lentamente sul vialetto fa balenare alla mente le
carovane o i gruppi di gangster che arrancano o cavalcano nelle strade
polverose dinanzi ai saloon e agli uffici dello sceriffo. Sì, siamo di
fronte a un western ma non ho intenzione di indulgere su questo aspetto
perché l’ho già letto da più parti. Soltanto su un passaggio voglio soffermarmi
per dare conferma di un libro alla Sergio Leone. È quanto Antimo
Della Cucchiara intende fare la pelle al boss locale, lo Ngannamuerti, e prima
di scatenare il finimondo prende il fucile e lo usa come stecca da biliardo
colpendo seccamente la palla bianca e il castello centrale dei birilli. Epico.
Ma Antimo
Della Cucchiara e Ngannamuerti, in fondo, sono solo dei poveracci vecchia
maniera, a cui interessa gestire il giro delle scommesse in qualche bisca o le
lotte dei cani. La vera ricchezza, che
arriva dallo smaltimento dei rifiuti e dal traffico di droga, dovranno
gestirla altri due: Carmine Capumalata e Tore della Cucchiara. Non per conto
proprio ma al soldo della mafia tarantina. Quella vera. E la cosa non sarà
indolore. Il tizio dell’incipit che arriva con il Volkswagen sbiadito e
smarmittato è
Tore della Cucchiara. Che torna dopo tanto tempo da chissà
dove. Neppure i figli, Gimmo e Michele, cresciuti senza di lui, sanno qualcosa
del padre se non quello che si sente in giro: che sia stato lui a uccidere la
madre, Antonia, scomparsa nel nulla.
Ma la storia
imbastita da Omar Di Monopoli non poteva essere lineare con una lingua del
genere e all’ombra di Sergio Leone, maestro dei collassi temporali
cinematografici. La storia si divide così su due piani narrativi: al dopo di Tore
della Cucchiara si alterna il prima di mbà Nuzzo, un santone guaritore che grazie
a presunti poteri miracolosi promette di guarire da ogni male. La povera gente
si affida a lui, lo venera come un Dio, pagandolo bene. Un cartello davanti
alla sua casa recita: GESÙ E ARIVATO. Testuale. Mbà’ Nuzzo è il padre di
Antonia, la moglie di Tore. E i suoi ricavi li dirotta soprattutto verso un
convento. Sì, avete immaginato bene: adesso appare la missione di origine
spagnola al confine tra Texas e Chihuahua. In questo convento, suor
Narcissa e suor Cristina nascondono inconfessabili trame, frutto di un legame consolidato
con Carmine Capumalata, ex socio di Tore diventato, negli anni in cui
quest’ultimo è scomparso, figura di spicco della criminalità organizzata.
Non aggiungo
altro sulla trama perché vi dovete perdere in questa scrittura vorticosa che
intreccia le storie dei personaggi mentre gli eventi del prima diventano
la chiave di interpretazione del dopo. C’è qualcosa che però accomuna tutti i protagonisti: la polvere
della sconfitta che cala su di loro. Inevitabile. Come tanti vinti verghiani riadattati all’epoca moderna. Uomini e donne, grandi e
piccoli che passano attraverso affetti disconosciuti, eventi che segnano,
vendette, violenze fisiche e morali. La redenzione è lontana, anzi impossibile.
Basta leggere il riferimento al Dio del titolo che quando lo incontri è come se
tu lo avessi già metabolizzato, tanto sono evidenti le cose: «Dio non c’è.
Siamo soli. Viviamo come capita e poi tutto finisce. Non c’è altro».
Se si cela da qualche
parte, è comunque un padreterno azzoppato, che non si cura di nessuno. Quindi
non esiste redenzione. O meglio, un pizzico lo troviamo grazie alla gentile
concessione-intercessione dello scrittore, che dà pennellate dissonanti al ritratto di alcuni protagonisti che così
assumono, nel cuore di chi legge, una luce diversa. Tore, ad esempio, è un
delinquente manesco ma ha un che di Ulisse. Sì, l’eroe omerico: torna
dopo una lunga assenza per vendicarsi, immerso in un silenzio duro come i muri
a secco della Puglia eppure con un miliardo di cose da raccontare. Sporco e
indiavolato come certi personaggi della narrativa confederata. A Tore vuoi bene come puoi voler bene a uno che ha la
fama di figlio di puttana ma che a te non ha mai torto un capello.
Suor Narcissa
rimanda inevitabilmente alla suora più famosa della letteratura italiana. La
monaca di Monza. Nei confronti della monaca manzoniana sei portato a provare
solo rabbia per la sua pusillanimità eppure a un certo punto lei comincia a
parlare e… cambia qualcosa. Così di suor Narcissa, veramente odiosa, si scopre un’onta subita in passato che per un attimo
porta a un briciolo di commiserazione. Autentici colpi di classe.
Di perfidia
abbiamo parlato, di Dio pure. Rimane la terra. Questa Puglia, con riferimenti
evidenti alla geografia malavitosa della Sacra Corona Unita con nomi e cognomi,
alle faide che hanno insanguinato il territorio imputridendolo eticamente, così
come materialmente lo imputridiscono le discariche sottoterra di rifiuti
mortali e gli scarichi e i fumi dell’Ilva, diventa il Sud. Con la S
maiuscola. È un non luogo buono per l’Italia ma anche per il Messico o il
Sudamerica. Lo stesso paese in cui si svolge l’intera vicenda, Rocca Bardata,
non è altro che un nome fittizio. Se lo cercate in Salento non lo troverete. Ma
se lo cercate con l’immaginazione contemporaneamente in Salento, nel Sinaloa e
in Colombia, sì.
Mi ha confessato
un’amica di quelle parti, Marcella Rizzo, che bardato, in salentino, significa:
pieno di orpelli. L’asino con la gualdrappa del cavallo diventa un ciuccio
bardatu. Il
bardato è uno che sotto a rivestimenti magari di pregio non offre nulla. La
terra di Omar Di Monopoli ha messo la gualdrappa dei depliant turistici ma se
li togliamo è ancora a pieno questione meridionale.
Marco Caneschi