#CriticaNera - Il genere noir. Una caricatura. Con un crudelissimo commissario donna

Commedia nera n. 1
di Francesco Recami
Sellerio, 2017

pp. 210
€ 14


Francesco Recami, fiorentino, si è occupato della stesura di libri scolastici e ha scritto romanzi per ragazzi. Poi, a un certo punto, ha proposto a Sellerio, siamo nel 1986, un manoscritto per il quale ha dovuto aspettare 20 anni prima di ricevere una risposta. Da Elvira in persona. Siamo nel 2006, Recami ha mezzo secolo di vita e quel manoscritto originario prende il titolo di “L’errore di Platini”.
Non appena l’ho intravisto in uno scaffale, a causa della malattia calcistica che mi accompagna fin dalla nascita, mi sono immaginato un libro sul grande campione juventino. Ma, a parte l’incipit, ho scoperto che Le Roi c’entrava poco o nulla. “L’errore di Platini” tratta del rapporto tra una madre e il figlio cerebroleso ed è sostanzialmente la storia di un infanticidio dopo una vincita al Totocalcio. In ogni caso, abbiamo tra le mani uno scrittore esordiente a 50 anni.
Chissà se è meglio debuttare in età matura piuttosto che in età scolare. Perché succede di questo, oggi. Anche se in Italia nella categoria giovani scrittori sono compresi i quarantenni, il fenomeno di lanciare i giovanissimi esiste. Tuttavia, cos’ha da raccontare un diciottenne? Cos’ha da raccontare uno che deve formarsi sotto il profilo esistenziale prima che letterario? Non a caso, nei libri si parla parecchio di sé, delle proprie inadeguatezze, il che non è un male di suo, se non fosse che è un qualcosa di così inflazionato che ne ho piene le scatole.
Un’altra cosa di cui ho piene le scatole sono i commissari. O gli investigatori. Ed è stato con questi pensieri in testa che ho ritrovato Recami: da quel suo esordio ha continuato a pubblicare con la copertina blu. Fino all’attuale “Commedia nera n. 1”. Accidenti, mi sono detto: l’ennesimo noir. Come se non bastasse, quell’accenno al numero 1 mi ha fatto pensare a una serie già pronta nel cassetto, a un contratto editoriale dai tempi certi e scanditi. Pure a lavorare su commissione non c’è nulla di sconveniente, tra l’altro funziona grazie anche ai meccanismi della distribuzione. Tra le pieghe del vasto mondo letterario ci saranno poi serialisti che si sono stufati ma non possono smettere e altri che non vedono l’ora di ricominciare con l’episodio successivo. Comunque, di questo passo andrà a finire che ci sarà da tremare ogni volta che usciamo di casa e non tanto per l’Isis quanto perché, stando a quel che si legge, perfino nei borghi più sperduti ci sono vari omicidi all’anno. Questa caterva di sangue e indagini, di commissari o di investigatori per caso alla Malvaldi è sfuggita di mano. Anche se, occorre riconoscere, la cattiveria esiste. Eccome.
Per fortuna, tuttavia, Recami ha messo addosso la maschera di Stenterello, d’altronde è fiorentino come vi ho detto. Così quello che pare un nuovo filone con l’ispettrice di polizia Maria Antonietta, nome evocativo di teste regali che rotolano, ricordatevi di questo accenno se leggerete il libro, è in realtà la caricatura che attendevo con ansia.
L’ispettrice è sposata con Antonio Maria, un brav’uomo nel vero senso del termine. Antonio Maria e Maria Antonietta: dovrebbe essere un legame spettacolare, perfino a partire dai nomi di battesimo visto che dove finisce quello del marito comincia quello della moglie. Quasi a permeare un’osmosi, una continuità di affetti, di tutto. Invece il matrimonio va a schifio. E per colpa di chi? Se Dio vuole dell’ispettore donna. Che vessa il marito costringendolo a imbottirsi di psicofarmaci, a rinchiudersi in uno sgabuzzino per ogni regola, ovviamente messa da lei, che sgarra, a sottoporsi a esperimenti dolorosi, a cucinare tutti i santi giorni per quando lei torna la sera dopo una giornata passata a risolvere casi e, qui c’è il top, ad ascoltarla mentre fa sesso con i suoi agenti che di volta in volta dormono in quello che era il talamo nuziale del povero Antonio Maria.
Il quale, a sua volta, prigioniero per giorni interi, sempre più stressato dalla claustrofobia, sempre più deciso a fuggire da quella prigione, sempre più consapevole di subire un’insopportabile tortura, comincia a pensare a tentativi di evasione che si risolvono in comiche e rocambolesche figuracce: il disgraziato, in un crescendo di narrazione fantozziana, o fumettistica se vogliamo visto che il suo personaggio televisivo preferito è Wile Coyote, finisce distrutto nel fisico e devastato nella psiche, comunque nelle mani della sua carceriera sprezzante, feroce, spietata, minacciosa, affamata di cibi ben cucinati.
In fase di scrittura, ho letto in un’intervista, Recami ha provato la trama a generi invertiti, con un commissario maschio, stronzo e infedele. Ma si è accorto, giustamente, che era banale. Il meccanismo sovvertito invece fa ridere. È sgradevole. Non invita all’identificazione. Diventa inaccettabile sia per il lettore maschio medio, che a un certo punto neanche prova pietà per il suo simile quanto piuttosto nervosismo per la sfiga che lo perseguita. Ma è mal digeribile anche per la lettrice media che si vede denunciata nella sua cattiva luce. Inettitudine da una parte, malvagità dall’altra. Quasi quasi meglio i cliché del maschio-macho e della donna-preda. Si fa per dire.
Ma quello che finalmente viene parodiato è il genere del noir da cui pare non se ne debba uscire. Con i suoi protagonisti infallibili, dall’alone maledetto manco fossero poeti randagi dei soffitti parigini dell’Ottocento, dediti a piacevoli scopate e, nella quasi totalità, maschi. È a forza di giocare con questi personaggi, e soltanto con loro, che gli autori hanno portato il noir alla proliferazione di una scrittura di maniera. Peccato, perché in fondo, non sarebbe soltanto un genere buono per strali salottieri. Nel passato, qualcosa da tramandare lo ha pure prodotto. Recami ce lo ha detto. A modo suo. Con un toscanissimo gusto del paradosso.

Marco Caneschi