Quel nome è amore
di Luigi La Rosa
ad est dell'equatore, 2016
pp. 184
€ 12
A due anni di
distanza da Solo a Parigi e non altrove
di Luigi La Rosa (ad est dell’equatore, 2014) è uscito, sempre per la stessa
casa editrice, Quel nome è amore, che
tanto somiglia al secondo capitolo di un progetto a due puntate. In realtà però, non possiamo
definirlo come un vero e proprio sequel, quanto piuttosto come la seconda faccia di
un dittico che, per essere capito, ha bisogno di essere letto nel suo insieme. Si
tratta di due romanzi diversi, ma che condividono la stessa cerniera, la stessa
ossatura; speculari, collegati, e che, in qualche modo, si completano a vicenda.
Mettendo
insieme i titoli emergono, da subito, i poli attorno ai quali ruotano i due
testi di La Rosa: Parigi e l’amore. Che in realtà formano un solo elemento:
nella mente dell’autore le due cose sono indistinguibili, fuse l’una
nell’altra, formando un’unica soave creatura. A una prima lettura verrebbe
da dire che il secondo elemento è il motore silenzioso e invisibile che muove gli
eventi mentre il primo fa da scenario alle gesta dei personaggi, ma presto ci
si accorgerebbe di aver sbagliato il calibro dell'analisi. In realtà
Parigi, più che essere il luogo d’ambientazione dei due romanzi, ne è l’indiscussa
protagonista. «Solo a Parigi e non altrove» perché solo Parigi e nessun’altra
sa generare quelle illusioni e quelle sensazioni, sa partorire quei fantasmi. È
Parigi, con il suo incanto, con il suo passato, con il suo elaborato ricamo di
storie, di intrighi e di passioni a condurre i vari personaggi ai confini dell’impossibile,
a spingerli verso il baratro. Parigi s’innamora e costringe a innamorarsi;
Parigi abbandona, squarcia il cuore, devasta l’animo. Parigi è amante e amata.
Parigi è amore.
La Rosa ha
definito i suoi romanzi «camminabili», perché per poterli davvero penetrare è
necessario entrare a contatto con le vie e i sentieri della capitale francese,
con le sue stradine, le sue piazze, i suoi quartieri, cimiteri, caffè,
giardini. Per aiutarci a fare ciò, ogni capitolo è accompagnato da una piccola
mappa che consente di collocare le vicende nello spazio e, più precisamente,
nella topografia parigina. Come già Solo
a Parigi e non altrove, anche Quel
nome è amore è un romanzo a cornice organizzato su più livelli. A un primo
livello, quello più esterno, si raccontano le peripezie dell’io protagonista,
un’alter ego dell’autore. Questi, sul metrò, durante una delle sue numerose permanenze
parigine, s’imbatte in un bellissimo sconosciuto che dimentica un libro sul
sedile, prima di lasciare il vagone. L’oggetto dimenticato diventa
immediatamente feticcio, incarnazione di un amore disfatto, distrutto sul
nascere. Ma sarà anche innesco della narrazione, la scusa per avviare una
ricerca assurda e senza speranza. L’io narrante, tornerà dunque a Parigi
appositamente per trovare il bel giovane, e il libro è l’unico elemento che lo
tiene in contatto con il fantasma di quell’amore, l’unica traccia da seguire. In
questa sorta di gioco investigativo il protagonista si troverà costretto ad
affrontare una serie di ostacoli, imbarcarsi in una miriade di vicoli ciechi,
per tornare indietro e ricominciare le sue ricerche d’accapo.
All’interno di
questa trama, apparentemente principale, s’incastonano magistralmente i sei
racconti paralleli, che rappresentano il vero fulcro del libro. Durante la sua ricerca, il protagonista ha delle
apparizioni, incrocia sei fantasmi di uomini e donne, in qualche modo legati al
mondo dell’arte parigina (il topos
era già stato collaudato, in maniera molto simile, in Solo a Parigi e non altrove). Ognuno di questi “incontri” è il
pretesto per raccontare la vicenda personale dei vari personaggi; sei storie di
amori perduti e disperati, di vite bruciate dalla vita, di anime perdute e
travagliate. Storie bellissime e struggenti che l’autore ricostruisce con
maestria, ma anche con perizia e precisione. Raymond Radriguet, Renée Vivien,
Carlos Casagemas, Simone Thiroux, Djuna Barnes, Frédéric Bazille si
materializzano davanti ai nostri occhi, con il loro carico di passioni
indomabili e di sentimenti travolgenti e distruttivi. Figure che potremmo definire “secondarie” nell'immenso scenario culturale parigino, ma solo perché hanno avuto la sfortuna di sfiorire prima della bocciatura, prima di essere baciate dalla gloria (con delle importanti eccezioni),
quando ancora erano nel pieno della loro foga artistica ed esistenziale.
A un terzo
livello, si colloca invece l’amore di tutti nei confronti di Parigi, compreso quello
dell’io protagonista, compreso, alla fine, quello dei lettori. Un amore che è
cifra di tutti gli altri e che fa racconto a sé. È Parigi che strega e che
rende vero l’inverosimile. Parigi piena di segreti, di misteri, di tesori e di
fantasmi. È Parigi che induce ad amare fino allo spasimo, senza speranza, senza
requie, con tutto se stessi. Ancora una volta, solo a Parigi, non
altrove.
Ci si potrebbe
fermare qui, ma c’è un ultimo elemento da prendere in considerazione. Un’ultimo livello
di lettura, che in realtà è il primo; il cerchio che racchiude tutti gli altri.
Il romanzo di La Rosa, in estrema analisi, mette in scena la più potente ed effimera
forma d’amore, quella che ci lega al fantasma per eccellenza: l’arte. È da lì
che tutto ha origine (non è un caso che il feticcio d’amore trovato dall’io
narrante sia proprio un libro). Vivere la vita come un’opera d’arte e scambiare
le opere d’arte con la vita è ciò induce i protagonisti a correre sul filo teso
dell’irrazionale, sfidando la logica comune. È questo aspetto a rendere i
sentimenti del libro assoluti, metafisici, imperativi e senza scampo. Quel nome è amore dunque, non è altro che il
racconto di una lunga rincorsa verso l’irraggiungibile, nella consapevolezza
della sua irraggiungibilità. Perché amare fino in fondo è impossibile e perciò
inevitabile. Non c’è altro che si possa fare; amare l’amore e quindi l’arte. E
quindi, Parigi.
Emiliano Zappalà
Emiliano Zappalà