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Sarà tutto un dirsi "ti ricordi i Chironi?","ti ricordi di te?"...

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I Chironi
di Marcello Fois
Einaudi, 2017

pp. 772
Euro 19,00



Solo adesso. Solo adesso che Stirpe (2009), Nel tempo di mezzo (2012) e Luce perfetta (2015) sono stati riuniti in un unico volume che sfiora le ottocento pagine è possibile misurare a dovere l’estensione generazionale e simbolica della saga della famiglia Chironi raccontata da Marcello Fois con una gestazione editoriale prossima al decennio. Solo adesso che un viso di bambino ci osserva attonito da questa copertina che è “una e trina”, mentre afferra due mani (di uomo? di donna?) tese sopra le sue spalle, allungate verso di noi in un gesto di elemosina o di eucarestia, possiamo fare i conti con un secolo di vicende private che pur nella loro eccezionalità potrebbero benissimo ergersi a paradigma. Poco importa che quello ritratto sia il primo o l’ultimo esponente dei Chironi, che sia il demone o l’angelo nuovo della loro travagliata discendenza: il suo sguardo minorenne, tutt’altro che raddolcito dal privilegio anagrafico, è, insieme, una richiesta muta di perdono e una condanna senza appello, e certamente un esorcismo alla dimenticanza. Perché si possa dire, e a lungo, «ti ricordi i Chironi?». Meglio ancora: «ti ricordi di te?».


Non ci sarebbe alcuno pericolo di spoiler a parlare oggi di questa triade romanzesca le cui vicende gravitano tutte intorno a Núoro, Sardegna “di dentro”, città-stato e pianeta al centro di un sistema solare sconvolto dalle continue rivoluzioni del secolo breve, dunque dalle versioni troppo spesso malintese della modernità e del progresso. Banalmente, non si correrebbe rischio alcuno dal momento che non di una nuova uscita si tratta, e che molto si è detto e scritto specialmente a proposito del capitolo centrale della trilogia, in cinquina al Premio Strega 2012. Eppure pronunciarsi su questo nuovo formato editoriale impone una certa reticenza, perché chi si trovasse ad affrontare adesso per la prima volta la storia dei Chironi non gradirebbe certo che gli venisse svelato alcunché. In un certo senso è il titolo stesso che sembra rendere superfluo ogni commento, con quella sua drammatica solennità che caratterizza i più noti precedenti letterari a cui viene giocoforza da assimilarlo (e a cui è stato difatti assimilato, dall’autore in primis): I Malavoglia di Giovanni Verga, I Buddenbrook di Thomas Mann... Come dire: se in queste pagine c’è la storia della famiglia Chironi, che altro vuoi fare se non venire a leggerla? Ma bada – e qui sta il busillis – che ci troverai molto anche della tua. Anche se non sei nuorese, anche se non sei sardo, anche se in Sardegna non ci sei stato mai. Basta tu abbia avuto una nascita e la violenza dei rapporti di sangue a ricordarti che cosa è famiglia e che cosa una sua verosimile (seppur ambiziosa) versione. Basta tu abbia un topos – in entrambe le accezioni: quella etimologica di “luogo”, quella retorica di “luogo comune” – che sia il tuo non eliminabile, il tuo non ignorabile centro gravitazionale. Stando così le cose non sarà necessario avere avuto i natali a Núoro, questo borgo, Provincia, Atene della Sardegna, Nulla eterno in cui gli accenti sulle vocali (e le implicite pronunce) sono anche graficamente importanti (perché non si dà nessuna Núoro, in questa trilogia, senza opportuna marcatura della “ú”). Viceversa, se nuoresi si è (lo è chi scrive questo articolo, per esempio), l’agnizione non potrà che essere più forte, addirittura lancinante, come anche la musicalità interna alla prosa, che sa diventare anche cantilena ostinata e, non di rado, orazione funebre.

L’incontro tra i capostipiti dei Chironi – Michele Angelo e Mercede, un fabbro e una donna che si riconoscono immediatamente e vicendevolmente come legati l’un l’altra per il resto della vita – avviene nel 1889: quasi sul bordo più estremo di un Ottocento che si prepara a morire per rinascere a nuovi decenni. Alla loro prole numerosa, destinata a intrecciare le proprie sorti con la Storia e le storie di un’umanità parimenti in scena, non sarà risparmiato nulla di ciò che il teatro del Ventesimo secolo aveva in serbo per i primattori come per le comparse: povertà e ricchezza, malattia e salute, guerre mondiali e faide intestine, vendette e rivincite, ammirazione e disprezzo, amori e amicizie, passioni e tradimenti. Incudini, falci, martelli, pietre, mattoni. E cerimonie: battesimi, fidanzamenti, matrimoni, più un conto sempre aperto con i funerali. Fino ad arrivare alle celebrazioni più estroflesse del nuovo paganesimo, quello votato alla nuova divinità degli anni Ottanta, il denaro, raggranellato nella pesantezza degli affari illeciti, della speculazione edilizia, della cementificazione squallida delle periferie e delle coste vanitose, simulacro di uno stile di vita che prolifererà – che tuttora prolifera – nel malinteso tra l’indigeno, l’esotico e il posticcio. I Chironi si muoveranno su questo tabellone di gioco, spostando le proprie pedine in un percorso che dalla sussistenza porterà al benessere, alla rovina, alla ripresa, alla vera e propria ascesa e infine all’ultima caduta. E sarà un incedere senza pace, con il conforto solo apparente di calendari o orologi.

In Stirpe si procede per Cantiche di memoria dantesca, ma a livelli sfalsati: prima viene il Paradiso (1889-1900), poi un lungo Inferno (1901-1942), ed è solo al termine, non nel frattempo, che si annuncia la stasi penitenziale del Purgatorio (1943). Nel tempo di mezzo mette in fila quattro Parti, porzioni di tempo significative che coprono pochi giorni (12-17 ottobre 1943), date solinghe (24 dicembre 1959), decenni (1946-1956) e annate isolate (1972 e 1978). Nemmeno Luce Perfetta concede il ristoro della cronologia, nel susseguirsi quasi capriccioso di fatti e antefatti (l’Ancora dopo precede il Prima, Nel frattempo il Dopo). Per chiudere questo cerchio mosso da un’ingovernabile maledizione della stirpe (Infine) si renderà necessaria una forma eccezionale di espiazione, tale da pacificare per sempre l’intera genealogia: e sarà il momento in cui i Chironi, da albero nato da chissà poi quale vera semenza, si trasformeranno in albero senza più fiori, senza più frutti, ma sempreverde nella chioma folta, fitta, pesante di ricordi ombrosi. Perché se I Chironi di Marcello Fois merita(no) un posto nelle nostre librerie è principalmente per questo: per il grande esercizio di memoria individuale e collettiva a cui questa trilogia ci richiama, a prescindere dalla nostra provenienza. E proprio per questo, c’è da crederlo, sarà così: “sarà tutto un dirsi” «ti ricordi i Chironi?», «ti ricordi di te?».

Cecilia Mariani