di Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca
Editori Laterza (collana i Robinson/letture)
pp. 82
€ 12,00 (cartaceo)
€ 7,99 (e-book)
Le virtù cardinali è un volumetto scritto da quattro Professori di Filosofia (Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano, Salvatore Veca) che si propongono di riflettere sulle cosiddette virtù cardinali (prudenza, temperanza, fortezza e giustizia) prendendo spunto dai pensatori che fino ad oggi le hanno analizzate, per poi attualizzarle e trasfondere il loro spirito nella società dei nostri giorni.
È un obiettivo ambizioso quello racchiuso in queste poche pagine, nelle quali personalmente ho trovato una eco de I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli), nel quale il Professor Umberto Galimberti analizzava i famosi sette vizi capitali e studiava quelli moderni che si sono generati dal nostro modo di essere e di agire.
Le virtù cardinali erano considerate come le colonne sulle quali ogni uomo doveva basare la sua vita per improntarla al bene: esse erano anche fortemente legate alle virtù intellettuali (sapienza, scienza ed intelletto).
La prudenza è la prima virtù che viene affrontata da Remo Bodei: egli scrive come, secondo la sua radice etimologica, con essa si voglia indicare previdenza e oculatezza, tanto da essere considerata per Tommaso d'Aquino l'Auriga virtutum, ovvero come in grado di guidare tutte le altre virtù.
Nell'antica Roma venne posta a base della iuris-prudentia, disciplina fondata sulla formalizzazione di alcune norme che però riescono anche ad adattarsi al cambiamento, così da modificarsi e arricchirsi.
Eppure già all'inizio dell'epoca moderna la prudenza viene associata alla politica, tanto da essere considerata sinonimo di astuzia, simulazione e dissimulazione.
La seconda virtù analizzata è la temperanza (se ne occupa Giulio Giorello), della quale sono stati esempi Pietro Verri, Cesare Beccaria e altri studiosi che vissero e operarono durante l'Illuminismo e che rivendicarono libertà di azione e di pensiero.
Si citano anche altri celebri personaggi, come John Milton e John Stuart Mill, e si cerca di capire come il concetto di temperanza da loro espresso possa essere coniugato nella società di oggi.
Procedendo nella descrizione incontriamo la fortezza (il saggio avente ad argomento questa virtù è di Michela Marzano), che se per spiegarla dapprima richiama alcuni versi della Divina Commedia ("Sta' come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti"), si rifa successivamente alla bellissima definizione di "eroe" che ha dato Aristotele e che ritroviamo anche nelle parole e nelle azioni di uomini coraggiosi come lo furono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: l'eroe è chi, pur sapendo di morire, riesce a convivere col timore e ad accettarlo fin nelle sue estreme conseguenze.
La Marzano ci chiede: dove finisce la paura ed inizia l'indifferenza? E quando il coraggio deve coincidere con la disobbedienza e con l'allontanamento dal conformismo (come ha scritto Hannah Arendt ne La banalità del male)?
Infine Salvatore Veca si occupa della giustizia e avverte che se l'estensione di una "giustizia nazionale" ad un livello "postnazionale" è difficile, questa sfida è assolutamente ineluttabile, soprattutto per le nuove generazioni.
Giunti al termine dei quattro saggi che, a dispetto degli argomenti trattati, sono di agevole lettura, la domanda che dovremmo porci pare essere questa: perché tanti filosofi, antropologi e pensatori sentono il bisogno di tornare a riflettere su antichi valori e dettami ormai apparentemente arcaici e superati?
Forse perché si avverte la necessità di rispolverare qualità e virtù che poi così obsolete non sono; forse perché il rischio del disinteresse di fronte alle questioni che la società ci presenta è sempre alto, ma solo riflettendo su quello che hanno scritto gli antichi e sull'operato dei grandi uomini che sono vissuti prima di noi riusciremo a orientare in modo corretto la bussola del nostro pensiero.
Ilaria Pocaforza
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