La stoffa dell’Italia.
Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi
di Emanuela Scarpellini
Laterza, 2017
pp. 250
Euro 20,00
Alla fine viene proprio da fare caso a come si è vestiti, mentre si legge La stoffa dell’Italia di Emanuela Scarpellini. Esattamente come succede a Andy, la protagonista di Il diavolo veste Prada, film culto del 2006 diretto da David Frankel tratto dall’omonimo romanzo di Lauren Weisberger: anche la persona più convinta d’essere indifferente alla “fenomenologia dell’abbigliamento” finirà con l’ammettere di non poter esistere al di là delle categorie della moda. Certo, in questo caso si tratta di un’“epifania” dolce, che si compie allo sfogliare delle pagine, mentre la povera Anne Hathaway lo scopriva traumaticamente in seguito a un’avvilente ramanzina pubblica da parte della luciferina Miranda Priestly, direttrice della rivista «Runway» (una «Vogue» del grande schermo), interpretata da un’insuperabile Meryl Streep. Ma mutatis mutandis il senso ultimo non cambia: perché la moda è un sistema complesso in cui coesistono economia e filosofia, “pratica e grammatica”, elementi materici e simbolici, e l’uomo o la donna che si dichiarino impermeabili ai suoi umori non ne sono meno fradici di chiunque altro inventi da sé il proprio stile o preferisca conformarsi alle tendenze del momento. Anche e soprattutto nel Bel Paese, la cui Storia e cultura della moda dal 1945 a oggi, come da sottotitolo di questo volume appena pubblicato da Laterza, è una vicenda complessa e appassionante, carismatica pure se si cercasse di coprirla di stracci, altrettanto bella e perfetta nelle sue imperfezioni anche se ammirata nella sua nudità evenemenziale.
Esperta di storia dei consumi e della cultura materiale, docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, in questo nuovo studio Emanuela Scarpellini va alla ricerca del quid nazionale all’interno del fashion system globale, ripercorrendo l’evoluzione di un settore che, nel corso del tempo e in particolare dal secondo dopoguerra in poi, ha coniugato l’eccellenza del settore tessile con antiche competenze artigianali e moderne procedure industriali, ampliando progressivamente oltre i confini peninsulari il proprio raggio d’azione commerciale e culturale (e dunque, di fatto, la propria capacità di influenzare i consumi e gli stili di vita). È un’evoluzione costellata di date importanti: se, per esempio, la storica sfilata fiorentina del 1951 a Palazzo Pitti decreta l’apertura internazionale della moda italiana, quella di vent’anni dopo alla Società del Giardino di Milano coincide con l’atto di nascita del cosiddetto prêt-à-porter, destinato a un enorme successo. Ed è un’evoluzione fatta di piccoli e grandi nomi, in cui l’importanza della sartoria più tradizionale (si pensi a quella napoletana) non è inferiore, anzi può concertarvi virtuosamente, rispetto a quella degli stilisti più “strillati” (sui media come sugli stessi capi di vestiario), veri e propri personaggi oltre che geni creativi e artefici di un mito italiano tutt’oggi inscalfibile (i vari Armani, Ferré, Valentino, Versace, Cavalli…).
Il criterio adottato dalla studiosa è quello cronologico, evidentemente il più adatto alla tipologia di una trattazione che rischierebbe altrimenti di perdersi in mille parentesi. Dopo un primo capitolo introduttivo – e forse un po’ superfluo, per l’impossibilità di una disamina davvero esaustiva circa I significati culturali del vestire – si procede per decenni e ventenni: si parte con gli anni dell’immediato secondo dopoguerra e del boom economico (1945-65), si fa una prima sosta con un excursus riguardante le utopie autarchiche del regime fascista anche in materia di abbigliamento, si prosegue entrando nella temperie “rivoluzionaria” degli anni Sessanta e Settanta e in quella “lussuosa” degli anni Ottanta e Novanta, e si arriva, infine, alla più recente contemporaneità, talmente in fieri da permettere solo una sfuggente presa d’atto dei fenomeni in corso – si pensi solo ai mutamenti innescati in ogni ambito dall’avvento di Internet, e alle conseguenze di fenomeni come il commercio on line o la nascita di nuove figure quali i blogger e gli influencer, la cui esistenza ha rivoluzionato le strategie pubblicitarie comportando un ridimensionamento a 360 gradi dei testimonial storici e delle top model). Se non ci si annoia, al di là del brio insito nella materia, è perché l’autrice conferisce alla trattazione un ritmo ulteriore rispetto a quello comodo e prevedibile dato dall’andamento progressivo. Ogni capitolo si apre, difatti, con la citazione di un film emblematico sia per la storia del cinema sia per quella del costume – nell’ordine: Vacanze romane (1953), Contessa di Parma (1937), Blow-Up (1966), American Gigolò (1980), il sopra citato Il diavolo veste Prada (2006) –, e presenta, al suo interno, due “appuntamenti fissi”, che rimandano al principio empirico di ogni discorso concreto sull’argomento: l’apertura e la disamina di veri armadi d’epoca, con descrizione del relativo contenuto, e l’osservazione di album o servizi fotografici risalenti ai vari periodi storici.
Gradevolissimo nello stile, ampiamente documentato ma totalmente privo degli odiosi tecnicismi tipici degli studi di settore, il lavoro di Emanuela Scarpellini si fa apprezzare sia dagli specialisti sia dai curiosi alla stregua di un lungo racconto sul “come si è conciata” l’Italia dal Fascismo in poi, la stessa Italia che ha vestito e ancora veste cittadini e cittadine di tutti i continenti. Nulla da ridire, ancora, a proposito degli apparati, dalla ricchissima e puntuale bibliografia in lingua italiana e in lingua inglese alla serie di tabelle in appendice per un confronto diretto con i cosiddetti “numeri”. Che cosa manca a questo bel volume? Forse, banalmente, solo una sezione iconografica, anche solo un simbolico fascicolo interno con una carrellata significativa di immagini suddivise per momento storico. Vero è che i riferimenti sono il più delle volte talmente noti da non necessitare quasi un equivalente visivo, e che l’autrice inserisce sempre in nota gli estremi testuali o multimediali per una consultazione autonoma da parte del lettore più incontentabile. Tuttavia, la pur bella foto di copertina, con le iconiche gemelle Alice ed Ellen Kessler immortalate in vaporosi abiti a rigoni sgargianti, qui al culmine del loro successo, ha la funzione classica dell’aperitivo, sfizioso ma insufficiente: se è vero che la moda è anche e soprattutto immagine si vorrebbe dell’altro, di più. Senza contare l’ovvio portato di nostalgia di questo preciso scatto (si badi: a colori) per la bella Italia che fu, quella della ripresa e dei nuovi miti popolari della cultura di massa, tutt’oggi carichi di quel fascino che proprio la moda, non a caso, ha contribuito a rendere immortali.
Cecilia Mariani
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