Siria, un diario in tempo di pace
di Marco Dominici
Delos Digital, collana Versante Est, 2017
pp.127
e-book euro 3,99
Marco Dominici ha vissuto in Siria dal 2002 al 2006, lavorando come insegnante di italiano presso l’Istituto Italiano di Cultura di Damasco e poi presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università. Il suo è un diario che ci racconta com'era tra il 2003 e il 2006 la realtà quotidiana di un Paese stretto tra la guerra in Iraq e le prime avvisaglie di un malcontento popolare, che poi sfocerà nella cosiddetta “primavera araba”, L'intento è quello di descrivere "il Medio Oriente narrato attraverso la filigrana delle mode, delle trasmissioni televisive, le canzoni e le voci dei siriani stessi, con cui l’autore ha avuto uno stretto rapporto di amicizia".
Ne viene fuori un racconto di viaggio che ci svela i retroscena della guerra in Siria, e confrontando i ricordi con quello che il panorama attuale ci offre, ovvero morte, distruzione, interessi in campo in una guerra tra fazioni senza un fronte definito, quasi di quartiere, che da diversi anni ormai devasta lo splendido stato siriano, viene da pensare a quanto l'umanità abbia perso in termini di bellezza e di conoscenza.
Oltre ogni stereotipo, spesso superficiale, il racconto che ci offre questo resoconto di viaggio ci presenta una realtà mediorientale composita ed eterogenea.
Una primavera in Medio Oriente: qui a Damasco l'inverno ormai flirta solo con la notte, grazie all'escursione termica del deserto, ma di giorno è il sole che la fa da padrone. Tuttavia sono i venti di guerra che prevalgono, li senti a ogni angolo della città, sui marciapiedi brulicanti del suq, sui muri della medina, tra i negozi stipati a ogni metro, con l'immancabile televisore sintonizzato su Al Jazeera.
Siamo nel marzo del 2003 e qui comincia la prima di quattro parti in cui si divide questo libro, che sovverte ogni luogo comune e ogni nozione che si pensa di conoscere su questo mondo, così lontano e nello stesso tempo così simile al nostro. In un crescendo di preoccupazioni che investono il suo punto d’osservazione privilegiato fino a invaderlo, assistiamo al preludio della rovina del popolo siriano.
E sembra quasi una rivelazione, questa consapevolezza di essere così uguali, di condividere le stesse emozioni, gli stessi momenti, avere magari gli stessi ricordi. Un balcone estivo, una chiacchierata seduti sulle stesse sedie bianche di plastica con i braccioli come se ne vedono tante anche in Italia. Nella penombra i minareti innalzano i loro appelli alla preghiera, uomini in ghellabja si tolgono i sandali davanti alle moschee, compiendo i gesti rituali e mormorando Allah uhakbar la illa illallah. La città inizia a illuminarsi a poco a poco, come un carillon di luci che ammiccano prima qua, poi laggiù, per dilagare a poco a poco in tutto il quartiere, in tutta Damasco.
Da uno scenario di serenità e pace apparente improvvisamente tutto cambia, e alla fine di marzo del 2003 arrivano i primi venti di guerra, è il 20 marzo e Saddam e l'Iraq sono nel mirino degli americani. L'osservatorio siriano da cui ci parla Dominici è al momento un luogo vicino ma non così noto, ove si ha solo la sensazione di quello che sarà.
Primo giorno di guerra in Medio Oriente. La città si sveglia più lentamente del solito, più cautamente, come se tutti avessero vegliato in attesa dell’attacco, e ora aspettassero a uscire di casa, come chi controlla da dietro le finestre se la tempesta può arrivare fin qui, tanto è vicina.
Qualche giorno dopo partiranno per la loro guerra personale anche molti giovani siriani, sarà Jihad raramente dichiarata da Bashar El Assad, che all'epoca era ben visto...
Bashar El Assad ha fatto qualche tempo fa un intervento al vertice arabo che è stato unanimemente apprezzato, in Libano, in Egitto, in Giordania. Con la differenza che in Giordania il governo secondo i siriani è “ricattato” dagli Usa e si muove ambiguamente, cosa che la popolazione (tra cui moltissimi palestinesi, profughi e non) non gradisce affatto.
Il 31 marzo qualcosa cambia nell’atmosfera del paese e nella consapevolezza dei siriani:
Le parole di Colin Powell di ieri sono un'inequivocabile dichiarazione di (futura) guerra alla Siria. Il tempo di finire questa, di mettere le mani sull'Iraq, di preparare l'esercito e l'opinione pubblica a un'altra guerra, e saranno qui. Massimo due-tre anni, dicono i siriani, con un sorriso disarmante.
Al di là di quelli che sono i giusti presentimenti della popolazione, i passi significativi sono quelli in cui l'autore cerca di far comprendere un concetto culturale fondamentale, in cui confronta il contesto con il mondo occidentale, in cui parla di un esempio “mancato” di occasioni sprecate, vista la grande influenza che nazioni come Italia e Francia rivestivano tra i giovani siriani.
I tempi degli arabi sono diversi dai nostri, questo non tutti lo hanno capito, soprattutto gli Stati Uniti: qui il motto è “se hai fretta, siediti e prendi un tè”; per comprare un tappeto potete anche impiegarci ore: si parla, si contratta, poi si beve un tè, poi si contratta ancora, poi si beve un altro tè, poi si parla ancora del più e del meno. Per quanto riguarda la politica e la società, i siriani sostengono che se si dà agli arabi la libertà, ognuno pretenderà di essere un rais.
Passano appena due anni e la Siria non è più spettatrice, viene chiamata in campo e viene accusata di essere la fonte di ogni male, gli viene imputata la morte del primo ministro libanese Rafiq Hariri, avvenuta a febbraio 2005 con uno spaventoso attentato nel cuore di Beirut.
Ma basterebbe vedere cosa sta succedendo in Libano in queste settimane per capire che l’assassinio di Hariri è più un macigno dritto sulla testa della Siria che un avversario in meno.
L’accanimento assurdo della Francia contro il Libano poi, in un Paese che ha sempre visto il paese come un modello culturale, che preferisce il francese all’arabo, non trova alcuna spiegazione e certamente non quella del risarcimento politico per l’influenza persa in Medio-Oriente. Forse la morte di Hariri è più un pegno per la sua volontà di integrare gli Hezbollah nel futuro governo? Forse perché l’America di Bush non poteva certo vedere come positiva l’integrazione di un nemico di Israele nei giochi internazionali? La Siria diventa a quel punto un perfetto capro espiatorio.
Nella parte finale il diario si fa più intimo e lo spostamento di prospettiva ci porta direttamente tra le relazioni personali dell’autore con il paese, nel rapporto diretto con la cultura attraverso la moglie araba, fino ad arrivare all’ultima cronaca damascena, quella del marzo 2006, data in cui l’autore lascia il paese, perché è avvenuto un cambiamento, il paese si è incupito, i prezzi delle case sono aumentati anche la sua posizione lavorativa è peggiorata, ancora una volta attraverso la lente della situazione personale si analizzano le relazioni geopolitiche in atto.
Lascio un Paese che, a parte le torbide e sanguinose vicende internazionali, vive un periodo di grandissima crisi economica: prezzi in pochi anni aumentati a dismisura, quelli delle case addirittura quadruplicati, malcontento popolare montante e palpabile negli sguardi più cupi di chi ti passa accanto, nell’avidità sempre più rapace dei tassisti, in una paura vaga ma latente che si riflette in ogni aspetto della vita quotidiana.
Le parole che risuoneranno nelle orecchie di questo testimone d’eccezione di un tempo in cui le cose sarebbero potute cambiare, prima di precipitare, sono quelle di una sua studentessa palestinese che parla dell’immobilismo del mondo arabo e di come l’unica cosa importante prodotta dopo l’anno mille sia stata la religione, nata come religione progressista e diventata strumento di più cupo oltranzismo reazionario, l’unica cosa che ormai conta, l’unico retaggio da difendere davvero. In un mondo dove la contaminazione era la via e sembrava possibile, i figli di questa cultura hanno pagato con la condanna da parte di quei paesi che prendevano a modello e si sono rifugiati nel passato, un passato non contaminato e issato come una bandiera.
Un libro interessante, come lo sono tutte le testimonianze sul campo, che racconta cosa c’è alle origini di conflitti che sembrano non riguardarci e di cui spesso deprechiamo le conseguenze senza preoccuparci di chi ha piantato i semi dell’odio e con quali intenti.