di Arno Camenisch
Keller editore, 2013
pp. 107
€ 12,00
Titolo originale: Hinter dem Bahnof
Traduzione di Roberta Gado
Non è romanzo la definizione più corretta per Dietro la stazione di Arno Camenisch. Piuttosto affresco. Piuttosto galleria. Così infatti si configura l'opera: non come successione di eventi, ma come sequela di ritratti minuziosi, carichi di ironia e di affetto, degli abitanti di un piccolo paese sulle Alpi svizzere, dove il piccolo narratore vive con la sua famiglia. Si tratta di un contesto ristretto - appena quarantuno abitanti, forse quarantadue (perché "non sappiamo se il Tini Biott è una persona o due") -, eppure la caratterizzazione assume immediatamente un valore universale e richiama una forma di socialità antica e declinante, commovente nella sua genuinità primigenia. Il protagonista e il fratello, furfantelli dalle innumerevoli trovate, trascorrono le giornate impegnati nelle loro scorribande e tutto ciò che vivono è degno di essere raccontato, nei toni semplici e immediati che solo un bambino può avere.
Nella realtà circoscritta del paese, del resto, la memoria, storica e presente, è una risorsa, la parola una ricchezza da salvaguardare; le lettere d'amore conservate dalle giovani in uno scrigno sono il piccolo tesoro che le può condurre all'altare e i disegni che immortalano la vita locale sono l'unico dono veramente prezioso (più degli anelli della mamma, che calzano inevitabilmente troppo grandi) che il narratore può fare all'amichetta Silvana, nonché correlativo oggettivo e metaletterario del suo cicalecciare leggero:
Nella realtà circoscritta del paese, del resto, la memoria, storica e presente, è una risorsa, la parola una ricchezza da salvaguardare; le lettere d'amore conservate dalle giovani in uno scrigno sono il piccolo tesoro che le può condurre all'altare e i disegni che immortalano la vita locale sono l'unico dono veramente prezioso (più degli anelli della mamma, che calzano inevitabilmente troppo grandi) che il narratore può fare all'amichetta Silvana, nonché correlativo oggettivo e metaletterario del suo cicalecciare leggero:
Il Gion Bi fa le poesie per una donna, (...) gli uomini fanno le poesie alle donne per dirgli che gli piace andare a spasseggiarsela e giocare a bocce con loro. Le donne devono mettere le poesie in uno scrigno di legno e, quando lo scrigno è pieno, possono sposarsi e avere dei figli. Anch'io voglio fare delle poesie alla Silvana, o le faccio dei quadri con su i conigli e i morsetti. E sopra altri fogli disegno la duecavalli arancione dello zio, le corna di cervo e il postale dell'Alfons. Disegno il Presti con la pala del pane, il Gionclau con l'ascia vicino al Reno e il papà e il Giacasep che fanno a botte. Disegnerò tutto il paese su tante pagine e le regalerò alla Silvana, così ce n'è di sicuro abbastanza da riempire lo scrigno di legno e la Silvana mi vuole sposare (73-74).
Per Camenisch, del resto, non c'è distinzione tra il disegnare e il raccontare: la parola diventa pennello, ogni pagina è un quadro a sé stante, e il volumetto lascia al lettore l'impressione di aver sfogliato un albo illustrato, tanto vivide e precise sono le immagini che riesce a evocare. Sono queste le magie dello sguardo del narratore, ingenuo per definizione, che tutto trasfigura e reinventa da zero, anche le cose più consuete:
In chiesa, vicino al prete, ci sono due ministrants. (...) Attorno ai fianchi hanno una corda da vitelli, serve ai preti per tenerli se uno dei due vuole scappare. Con la corda da vitelli può anche legarli alla sedia o andare a passeggio con loro dopo la messa come col Fido. I ministrants devono portare le cose al prete. Gli reggono il libro quando vuole cantare delle canzoni che ci sono scritte sopra, e portano le candele, perché il prete è un uomo da candele. A volte prendono persino l'arnese del fumo, dove il prete ha messo delle sigarette accese. La cosa più importante però è che portano al prete i biscottini e il grappino nella coppa d'oro (72).
La stazione è il punto d'accesso al villaggio, uno dei pochi modi in cui il mondo esterno può ancora fare irruzione, seppur in modo intermittente. Dietro la stazione il tempo cambia forma, si dilata e allo stesso tempo scorre più veloce, e l'infanzia può apparire senza tema di contraddizione eterna e fulminea. Anche la lingua si trasforma, nello spazio delle contrade: il tedesco parlato in città lascia spazio al romancio, che si intrufola nella scrittura con le espressioni più colorite e famigliari, i modi di dire, le imprecazioni. È l'oralità che viene trasposta sulla pagina, nella schiettezza di una voce bambina che riporta senza filtri anche la parlata degli adulti, e persino le parole straniere vengono ridotte a puro suono (l'orologio Svuoc, la mochett, il fular, orvuar).
Nel desiderio di Camenisch di conservare la memoria di una realtà fatta di luoghi, persone e linguaggi; nella sua convinzione che la scomparsa del ricordo porti con sé la morte di un intero universo; nel gusto salace per il pittoresco che si può ritrovare nella quotidianità, si può rivedere l'istanza che muoveva anche il Meneghello di Libera nos a Malo, cantore di una vita paesana che si conservava immutata da tempo e nel tempo e andava tutelata dai mutamenti sociali incombenti. I finali peraltro sono simili: nella rottura di un lampione che fa subito buio, o in un allontanarsi che è prima di tutto metafora, il paese svanisce, lasciando spazio solo al tempo e al ricordo. È quindi con un senso di riconoscimento che si legge - o meglio si degusta, assaggio dopo assaggio, con piacere crescente - quel piccolo gioiello che è Dietro la stazione.
Carolina Pernigo
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