Breve storia del divismo cinematografico
di Cristina Jandelli
Marsilio, 2007
pp. 206
Euro 12,50
Si dice “divo/diva del cinema” e si crede di avere detto tutto. Come se tutte le forme di divismo pari fossero. Niente di più sbagliato, dal momento che la categoria del divismo è stata soggetta a un’evoluzione costante e continua che è andata di pari passo con gli sviluppi (anche tecnici) della settima arte e, parallelamente, con i cambiamenti sociali e culturali del Novecento e oltre. Non era certo la stessa cosa essere una star al tempo del muto o dopo l’avvento del sonoro, così come c’è una bella differenza tra le figure portate alla ribalta dalla corrente neorealista nel secondo dopoguerra e quelle proposte dal cosiddetto “cinema degli autori”, successivo alla rivoluzione della Nouvelle vague francese degli anni Cinquanta e Sessanta. E che dire poi del divismo attuale, che pur nel prestigio “storico” che ancora viene riconosciuto agli attori e alle attrici del grande schermo subisce come mai prima la concorrenza di svariatissime idolatrie ad personam, incoraggiate da sempre nuove forme di intrattenimento e dai social media? Con la sua Breve storia del divismo cinematografico Cristina Jandelli aiuta a comprendere gli snodi principali di questo fenomeno complesso e tutt’oggi ricco di sfumature, e proprio per questo capace di appassionare gli studiosi di settore come il grande pubblico; lo stesso pubblico senza il quale i divi e le dive non potrebbero esistere come tali.
La storia del divismo – del come si acquisisce questo status, lo si vive, lo si perde – è affascinante almeno quanto le singole e carismatiche personalità alle quali il concetto stesso è comunemente associato. E Jandelli, che attualmente insegna Storia del cinema e Forme del cinema moderno e contemporaneo all’Università di Firenze, è abile nel mettere in evidenza, in modo chiaro e lineare, i passaggi evolutivi di una realtà che ha la sua origine fondativa nell’incontro tra il personaggio cinematografico e la persona dell’attore o dell’attrice che lo interpreta, e che successivamente, nel corso del Novecento, subisce una serie ininterrotta di “aggiustamenti” in rapporto a questioni produttive, stilistiche, culturali. Si pensi al cuore stesso della faccenda, ovvero l’immagine divistica: la sua totale monopolizzazione da parte delle case di produzione è destinata a lasciare progressivamente il passo a rivendicazioni di indipendenza che comporteranno anche una differente gestione economica dei profitti basati sul suo sfruttamento; la vita mediatica degli attori e delle attrici alterna periodi in cui essa ha valore autonomo rispetto alle persone reali ad altri in cui il materiale biografico autentico viene utilizzato con efficacia sulle pagine dei periodici per diffondere l’immagine della persona star. Ancora, a seconda dei casi, è possibile che i divi e le dive siano chiamati a rappresentare sempre “qualcosa di più e di meglio” rispetto allo spettatore medio, oppure si fa in modo che il pubblico possa identificarsi e rispecchiarsi totalmente in loro: se, per esempio, nell’epoca della Grande Depressione la star equivale a «un sogno di perfezione, un’immagine scintillante del glamour, una delizia materiale e un conforto spirituale», il cinema neorealista, con i suoi cast di non professionisti, si impone a tutti gli effetti come cinema della “vicinanza”.
I divi e le dive, dunque, possono essere “costretti” ad essere eroi ed eroine sia sul grande schermo sia al di fuori di esso, oppure, viceversa, capita che siano chiamati a interpretare ruoli di totale smarrimento, al punto che per il pubblico è impossibile scindere le crisi dell’attore e dell’attrice di turno da quelle effettivamente vissute nel loro privato. Si pensi, a questo proposito, a icone degli anni Cinquanta come Marylin Monroe e Marlon Brando, per le quali si avverte un’impressione di familiarità prima sconosciuta proprio perché l’immagine divistica, con la complicità della sovraesposizione mediatica, diventa il riflesso delle biografie di questi artisti dotati naturalmente di talento e carisma, dall'esistenza tormentata, e soprattutto idolatrati dal coevo pubblico giovanile. E si pensi, ancora, a quanto accade alla fine anni Sessanta, quando con l’avvento della Nuova Hollywood i divi possono concedersi il lusso di diventare “brutti e sporchi”, secondo un processo che eleva i cosiddetti “tipi” del vecchio studio-system al rango di personaggi principali (Al Pacino, Dustin Hoffman), mentre in Europa, con i registi che rivendicano un ruolo sempre più di primo piano, si assiste alla proliferazione di attori che sono veri e propri alter ego dei loro autori di riferimento (Jean-Pierre Léaud per François Truffaut, Marcello Mastroianni per Federico Fellini). Finché, a partire dagli anni Ottanta, l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Ronald Reagan, ex-attore di film di serie B, non sfaterà anche l’ultimo tabù, ovvero l’impossibilità dei divi e delle dive di avere influenza sulle questioni politiche.
Cristina Jandelli ripercorre tutte queste fasi, senza forzature logiche, con abbondanza di esempi e con una prosa che bilancia alla perfezione il rigore argomentativo con i toni suggestivi che la materia stessa non può non richiedere. Anche quando si tratta di rimarcare le ombre più nere dello star-system, con la conseguente caduta dei suoi dei e delle sue divine. La stessa Hollywood si era trovata a riflettere su questi aspetti, in chiave meta-cinematografica, già all’inizio degli anni Cinquanta, quando si era interrogata sulla natura del divismo con tre film autoriflessivi – All about Eve (Eva contro Eva, di Joseph L. Mankiewicz, 1950), Sunset Boulevard (Viale del tramonto, di Billy Wilder, 1950), Singin’ in the Rain (Cantando sotto la pioggia, di Stanley Donen e Gene Kelly, 1952) – che problematizzavano proprio la condizione del divismo, mostrando l’altro lato della medaglia e palesando il meccanismo perverso che regolava la nascita, la vita e la morte degli idoli, specialmente per la perdita dei valori morali e umani che esso comportava.
Sebbene la pubblicazione risalga a dieci anni fa, e dunque non tenga conto delle più recenti evoluzioni del divismo cinematografico in relazione alle nuove strategie di autopromozione e autoproclamazione divistica incoraggiate soprattutto dai social networks, il testo di Cristina Jandelli si conferma ancora molto valido per delineare i contorni storici di una realtà stratificata, da sempre reattiva rispetto sia alle dinamiche interne al cinema sia ai fenomeni di costume intesi in senso lato. Utile per ulteriori approfondimenti è la bibliografia allegata in coda al volume, che privilegia gli studi fondamentali sull’argomento (quando possibile in lingua o in traduzione italiana) ma non menziona, per scelta, i contributi saggistici pubblicati su rivista e le singole monografie sui vari personaggi citati. Essenziale, infine, l’apparato iconografico, che correda i vari capitoli con i volti di alcune delle personalità divistiche presi in esame. E forse è proprio per effetto di questa essenzialità se a fine lettura succede l’inevitabile; se, cioè, non si resiste alla tentazione di digitare i nomi delle star ricordate da Jandelli sui più noti motori di ricerca per immagini e video, per poi restare lì a contemplarne i lineamenti – nei fotogrammi, nelle pose, nelle copertine dedicate –, o a ripassarne le battute e le movenze in qualche scena-madre. Così, mentre i divi e le dive si confermano a portata di sguardo, statici come icone o impegnati in una gestualità replicabile all’infinito, la loro eternità si chiarisce davanti ai nostri occhi come l’esito prevedibile di una dialettica (ancora) spietata e crudele: perché «i divi nascono e muoiono, incessantemente, senza un perché, obbedendo a una logica occulta. La grandezza della gloria passata si misura con un presente immemore, avido di nuovi miti».
Cecilia Mariani