Elogio dell'occidente
di Franco La Cecla
Elèuthera, 2016
pp. 176
€ 14
Leggo questo libro nei giorni dell’attacco a Barcellona. Mi arrabbio, lo chiudo, lo riapro. Mi sento un’occidentale ricca e viziata e Franco La Cecla lo sa. Il terrorismo mi mette alla prova. Tra i miei contatti fioccano hashtag sentimentali per mostrare la vicinanza alle vittime di Barcellona, ma è più in voga essere tra quelli che riflettono e io cerco di farne parte. Terrorismo frutto delle politiche occidentali, delle guerre che abbiamo intrapreso, della democrazia che abbiamo ridicolmente esportato. Trasudiamo senso di colpa in ogni nostra affermazione. A parte forse un manipolo di leghisti, ci sentiamo tutti colpevoli davanti agli attentati, è inutile negarlo. Siamo noi i cattivi, Europa e Stati Uniti, i capitalisti che hanno infettato il mondo. E il nostro ruolo dunque? Dirlo, e basta. Siamo sporchi, brutti e cattivi, ma almeno lo sappiamo. Nel mondo ci sembrano tutti meno brutti e cattivi di noi. Ma la verità è che, dietro al nostro consapevole vittimismo, nessuno di noi viziati occidentali farebbe a cambio con chiunque altro. Perché, in fondo, la vita che facciamo ci piace. Cerchiamo di sentirci meno cattivi tra i cattivi, ci facciamo l'occhiolino perché siamo “consapevoli”. Ma questa consapevolezza mescolata a un vago anti-occidentalismo cosa significa? Significa che siamo disposti a rinunciare all’Europa?
Franco La Cecla provoca la pretesa superiorità di cui ci sentiamo investiti e ci riporta coi piedi per terra. Proprio per questo Elogio dell’occidente è un libro che fa male. Un male terapeutico, perché mette in luce i problemi e le manchevolezze di tutta quella che dovrebbe essere – mi si conceda il termine – un’etica europea. La Cecla, antropologo e giornalista, ha sfidato con questo libro il clima vittimistico diffuso soprattutto negli ambienti culturali, quello sguardo tipico dell’occidentale colto che oscilla tra il pietoso e il rassegnato, l’idea sottesa che l’Europa sia un continente in crisi che non vale la pena di salvare. Alla sinistra piace così tanto questo atteggiamento che è finita per comportarsi con i cosiddetti “altri” alla stregua di un genitore inadeguato che, logorato dai sensi di colpa, concede qualsivoglia manifestazione di alterità, nella «contemplazione cinica del disastro» (p.12). Il punto è tutto qui: siamo terribilmente europacentrici anche in questo vago vittimismo nei confronti di un altrove che invece è altrettanto spietato, corrotto e senza scrupoli.
Come se altrove che in Occidente non ci fossero le stesse radici del male, della crudeltà nei confronti degli altri esseri umani, non ci fosse la soppressione della voce delle donne e dei diversi, lo sfruttamento di intere fasce di popolazione ridotte in caste o in etnie e tribù avverse. (p. 13)La Cecla fa ordine. Europa e Stati Uniti non sono la stessa cosa, intanto. Ripercorre la classicità greco-romana, l’avvento del cristianesimo e la separazione Stato-Chiesa. Parla di India e di Cina. Riporta la Russia tra i confini dell’Europa (il Grande Inquisitore non è forse un imprescindibile capitolo del nostro essere europei?) e riflette sul terrorismo. E soprattutto parla dell’Europa, vista come un connubio di diversità e stress, equilibri precari irrazionali, politiche estere scellerate e spesso controproducenti. E ne parla bene, perché l’Europa è anche il continente di differenti lingue e costumi che ha saputo costruire a prezzo altissimo un periodo di settant’anni di pace, dove i ragazzi vanno in Erasmus ed è possibile il dissenso. La Cecla non rinnega le colpe dell’Occidente, sia ben chiaro. Ma ci avvisa: continuare a pensare ai nostri peccati adamitici sta significando perdere di vista il presente, facendoci dimenticare quelle che La Cecla chiama appunto “conquiste fondamentali”. Io sono una donna e, per quanto la disparità con gli uomini sia innegabile, ho potuto studiare e lavorare. Posso avere il ciclo senza sentirmi una reietta e posso andare a votare, posso decidere con chi fare sesso e non sono obbligata dalla famiglia a sposare qualcuno o a fare figli. Quanto diamo per scontato queste conquiste? L’Europa è un’eccezione e ci sono persone che ogni giorno rischiano la propria vita per avere la possibilità di vivere in questa eccezione. Votiamo anonimamente. Possiamo dissentire dai nostri leader, con risultati più o meno soddisfacenti, ma il dissenso ci è concesso senza venire incarcerati. Siamo davvero consapevoli della ricchezza che abbiamo? L’Europa è ben lungi dalla perfezione, certamente. La politica europea è un non-sense che vediamo tutti i giorni, ma al di là dell’inadeguatezza della politica c’è un baricentro culturale che dobbiamo tenere a mente: l’universalismo.
A cosa serve allora l’Europa e l’Occidente se come progetto politico è diviso al suo interno e in più non ha il coraggio di esporre e difendere la sua funzione nel mondo? Ma è proprio l’aspetto antropologico e geografico che, a dispetto di quello politico, fa sì che l’esperienza europea e occidentale sia fondamentale per il resto del mondo. (p. 40)
Universalismo che si amalgama in un incontro-scontro perpetuo con un individualismo inteso nel senso più nobile del termine. Per spiegarcelo La Cecla cita la norvegese Unni Wikan e TS Eliot:
C’è qualcosa di comune a tutte le culture ed è un senso della “persona” come centro di pensieri, iniziative ed emozioni, e soprattutto come centro della volontà di “poter pensare bene di se stessi”. […] Per lei bisogna rendersi conto che, nonostante le differenze tra culture, le enormi distanze tra un mondo come quello egiziano e quello balinese o norvegese, e nonostante la storia dell’individualismo in cui il mondo occidentale si è forgiato, le persone non sono la loro “cultura”, ma sono anzitutto esseri che si battono con le urgenze e le necessità della vita per mantenere una propria dignità, e spesso lo fanno contro la propria cultura. (p. 141)
La Cecla provoca e vuole farci riflettere. Si può dissentire con La Cecla, plaudere l’acume dei suoi spunti letterari, tacciare alcune riflessioni di semplicismo. Ma Elogio dell’occidente è e resta un gran libro, perché è uno specchio che ci obbliga a guardare noi stessi e a porci una scomoda domanda: vale la pena di lottare per l’Europa?
Manuela Cortesi