di Carlo Ginzburg
Einaudi, 1986 e 2000
pp. XVI - 251
€ 20 cartaceo. Disponibile in ebook
Ci
sono quei libri rispetto ai quali non puoi che soccombere per manifesta
inferiorità. Belli, meno belli, non è questo il punto. A parte il fatto che pur
affrontando temi ostici Carlo Ginzburg possiede il dono dello scrivere in una prosa
che rende accessibili i contenuti, dopo avere terminato le sue opere hai l’agnizione,
direi socratica, del sapere di non sapere. Ma come rovescio positivo della medaglia,
emerge la concreta sensazione di avere
compiuto uno sforzo vero, autentico, in direzione dell’accrescimento del
bagaglio culturale. E se la vecchiaia manterrà lucida la mente, dei libri
di Carlo Ginzburg ti ricorderai, sentendo le nozioni ivi contenute circolare
tra i neuroni, alcune fissarsi addirittura tra le acquisizioni perenni, quelle
che permettono di comprenderne, o acquisirne, altre e, al limite, fare bella
figura durante un convivio amichevole.
Nella
prefazione a questo saggio, che è una raccolta di saggi, Carlo Ginzburg ci dice
che in gioventù leggeva romanzi, Lukács, Gramsci, Croce attraverso Gramsci, non
amava Pasolini ma si nutriva della sua “Officina”. Poi, a un certo punto la
folgorazione: la lettura de “I re taumaturghi” di Marc Bloch. Successivamente
giunsero Freud, Lévi-Strauss, il Warburg Institute, Propp. A 27 anni pubblicò “I benandanti”, un libro rivoluzionario per la storiografia
dell’epoca nato grazie alla scoperta casuale, all’Archivio di Stato di Venezia,
di poche pagine dedicate a un bovaro friulano, Menichino da Latisana, che
racconta all’inquisitore chi sono i membri di questa strana setta. E dice: siamo nati con la camicia, tre volte
all’anno ci rechiamo in spirito nel prato di Josafat, a lottare con le streghe
e gli stregoni per la fertilità dei campi. Lo studio attorno ai benandanti
del Friuli tra ’500 e ’600 permise l’emergere di analogie sconcertanti tra le loro
credenze e fenomeni lontanissimi nello spazio e nel tempo riconducibili agli
sciamani siberiani.
L’officina
di uno storico, con Carlo Ginzburg, divenuto tale grazie al desiderio di studiare i processi di
stregoneria dalla parte dei perseguitati, può diventare una wunderkammer. A
tale proposito Ginzburg ha dichiarato una cosa interessante, di richiamo dostoevskijano: «Prima è scattata una sorta di identificazione emotiva
con le vittime; più tardi avrei scoperto una inquietante contiguità
intellettuale con gli inquisitori». E questo perché «…in molti casi c’era, da
parte degli inquisitori, una straordinaria attenzione nei confronti delle
testimonianze degli imputati. Proprio come fa uno storico».
Ed
entriamo nel cuore di questi saggi, dove riappariranno proprio streghe e
benandanti. In questo caso non c’è magia ma il chiaro intento di un grande
studioso. Sono sette per la precisione: stregoneria e pietà popolare, Warburg e
i suoi continuatori, emblemi e conoscenze proibite, Tiziano e i codici della raffigurazione
erotica, spie un po’ particolari, mitologia germanica e nazismo, Freud alle
prese con l’uomo dei lupi e i lupi mannari. Temi apparentemente diversi a un
primo sguardo ma Ginzburg chiarisce subito: «il rapporto tra «morfologia» e «storia» mi pare il filo conduttore
dell’intera serie». Vediamo un po’.
Il primo è “Stregoneria e pietà popolare” ed è del 1961: alla conoscenza storica
possono essere ricondotti fenomeni apparentemente trascurabili come i processi
di stregoneria. Il saggio si occupa della difesa, o meglio autodifesa, di una
donna modenese, tale Chiara Signorini, dinanzi agli inquisitori attorno al 1520.
Nelle sue confessioni tornano vaghe reminiscenze, resistenze, di religiosità
popolare antica, pagana, dove il demonio
spesso richiamato è il riferimento a un sentito dire a tratti mitico. Inquisitori
e streghe, all’epoca, sembrerà paradossale, credevano veramente nel demonio,
nella sua presenza quotidiana, certe donne credevano perfino di farci l’amore,
il sabba. E mentre si pone subito l’ovvio problema di sapere distinguere la
verità dal falso, specie quando ci si mette di mezzo la tortura, a ingarbugliare
le acque contribuisce la stessa Chiara Signorini che, nelle sue confessioni,
comincia a fare apparire diavolo e madonna a corrente alternata, entrambi
pronti a esaudire i suoi intenti. Ma Ginzburg si dimostra subito di rango
ricordandoci la distinzione tra la stregoneria colta e la stregoneria popolare:
quest’ultima è un prezioso documento indiretto di credenze in cui madonna e
demonio si confondono in ambiti territoriali la cui religiosità è di una
elementarità sconcertante ed è esiguo il confine tra fede cristiana, elementi
superstiziosi e residui precristiani.
Il secondo, oggettivamente il più difficile
come lettura, è “Da A. Warburg a E.H. Gombrich” del 1966, una riflessione sull’uso
delle testimonianze figurate come fonte storica e il perdurare di forme e
formule. In sostanza, tutti i pittori
sono debitori di altri pittori e non della realtà, i loro quadri devono più
ad altri quadri che all’osservazione diretta e la storia dell’arte non è che la
vicenda di prestiti continui tra coloro che si succedono in una vischiosità
straordinaria. Accettata questa tesi, molto gombrichiana, anche Ginzburg si
accorge del problema residuo, non di poco conto: come enucleare i rapporti tra
fenomeni artistici e storia politica, religiosa, sociale, culturale in senso ampio,
il legame tra forma e funzione nell’arte.
“L’alto e il basso” del 1976 parte da un passo di Paolo di
Tarso dove appare un detto indebitamente tradotto in latino – Noli altum sapere – e trasmesso nei
secoli a venire come condanna della curiosità intellettuale. Ginzburg affronta categorie
elementari di carattere antropologico in ambiti culturali diversi, i libri
degli emblemi e l’evoluzione della
lettura dei miti di Icaro e Prometeo, simboli della superbia umana durante
il medioevo, autentici eroi durante l’illuminismo.
“Tiziano, Ovidio e i codici della
figurazione erotica nel Cinquecento” è
del 1978. Siamo sempre intorno al rapporto tra miti e dipinti,
accomunanti da una dimensione formale, quindi morfologica, che permette di
entrare a capofitto in uno strato inattingibile agli strumenti consueti della
conoscenza storica. Il mondo raffinato
delle divinità pagane era giunto a Tiziano tramite volgarizzamenti molto
arbitrari dei traduttori a lui contemporanei che non esitavano ad
aggiungere a un passo, ad esempio, delle “Metamorfosi” soggetti e accadimenti
che Ovidio neppure citava. Tali traduzioni degli umanisti venivano corredate da
elementari illustrazioni. Ci pensava Tiziano a renderle sublimi, prendendo tuttavia
spunto dalle volgarizzazione stesse e non dagli originali latini. Magari perché
non era in grado di leggerli ma di sicuro l’ispirazione si ampliava. Non solo
il rey imbrattacarte Filippo II, cupa
icona della controriforma, ma, ed ecco la chiosa di Ginzburg, «molti lettori
anonimi delle “Metamorfosi” volgarizzate, nei loro camerini avranno proiettato
le loro fantasticherie più segrete nelle gesta amorose degli dei antichi».
“Spie” del 1979 esordisce
citando una serie di articoli di un italiano, Giovanni Morelli, pubblicati
sotto pseudonimo tra il 1874 e il 1876 in una rivista tedesca che proponevano un
nuovo metodo per l’attribuzione dei quadri antichi e che suscitarono grandi
reazioni. Per Morelli non bisognava basarsi sui caratteri più appariscenti e
più facilmente imitabili dai copisti ma esaminare i particolari trascurabili
come unghie, forma delle dita delle mani o dei piedi, lobi delle orecchie. Un
metodo indiziario. E qui Ginzburg parte con il suo stargate che lo conduce
attraverso scienze moderne e antichissime. Dai cacciatori primitivi che per
sopravvivere dovevano catturare animali e dunque guardare per terra per
scoprire un’orma minuscola alla divinazione babilonese, dallo Sherlock Holmes
di Artur Conan Doyle e il romanzo poliziesco alla psicoanalisi che cerca di
scoprire le tracce più occultate di noi stessi. È una conoscenza di tipo diagnostico, in cui entrano in gioco elementi
imponderabili, rinnegata dalla scienza moderna quantitativa e analitica e
su cui s’infrangono le pretese delle scienze umanistiche otto-noceventesche che
ancora dibattono sul quanto le loro regole si prestino a essere formalizzate.
“Mitologia germanica e nazismo” del 1984
è un saggio attorno all’opera di Dumézil e al suo libro “Mythes et dieux des
Germains”, una riflessione sui tentativi di analisi del nazismo in quanto
fenomeno non riducibile a componenti esclusivamente politiche, economiche e
sociali. Ginzburg, non so quanto tirato per la camicia dai sensi di colpa viste
le origini familiari, riconosce che sarebbe un errore limitarsi a un pregiudizio
ideologico nei confronti di ricerche che spiegano lunghissime continuità in
termini archetipici (tipo Mircea Eliade) o perfino razziali (tipo Otto Höfler).
L’opera più originale in tale direzione interpretativa è quella di Dumézil che
conobbe recensioni positive, alcune peraltro alquanto inattese come quella
dell’ebreo Marc Bloch, l’autore dei re taumaturghi. La tesi di Dumézil è che ci
sarebbe una continuità inconsapevole tra
miti germanici, che fin dalle società più antiche ruotavano attorno a un
baricentro molto militarizzato, e aspetti della Germania nazista. Nei
lavori successivi Dumézil ha corretto il tiro insistendo, sì, su una continuità
che tuttavia è diventata cosciente e ha preso le forme di un’ideologia
indoeuropea. Un esempio di accordo spontaneo tra presente nazista e passato
remoto verrebbe individuato tra le SA naziste e gli eredi degli Harii di Tacito
ovvero i berserkir, gruppi di giovani guerrieri, ricordati
nelle saghe islandesi, e braccio armato dei seguaci di Odino - un po’ come,
banalizzando, l’Eta lo era di Batasuna e l’Ira dello Sinn Féin.
Con “Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari”, l’unico
inedito della serie, si torna fra streghe e processi dell’inquisizione, riappare
il comune sostrato slavo delle credenze dei benandanti friulani, sciamani
baltici, táltos ungheresi, kersniki dalmati - tutti nati con la
camicia, con i denti, nei giorni compresi tra natale e befana - a cui era
attribuito il potere di diventare lupi mannari, combattere contro i malvagi per
rendere fertili i raccolti, entrare nel regno dei morti. Se Freud tende a ricondurre il caso dell’uomo dei lupi all’isteria prodotta
da un trauma originario, Ginzburg replica che l’inventore della psicoanalisi finisce
così per trascurare un consistente retaggio mitico. L’uomo dei lupi era un
paziente russo, di buona borghesia, allevato da genitori “all’inglese” ma con
una bambinaia molto superstiziosa che chissà quante, e quali, favole gli aveva
raccontato. Una notte, da bambino, si svegliò di soprassalto perché davanti a
sé e al letto vide una schiera di lupi bianchi appollaiati sull’albero oltre la
finestra che si spalancò all’improvviso. Un sogno. Anzi un incubo. L’uomo era
nato a natale e con la camicia perché la sua classe sociale di appartenenza si
poteva permettere di rivestire così un neonato subito dopo il parto. Sottoposto
a pressioni culturali contraddittorie, trecento anni prima sarebbe stato un
lupo mannaro mentre nel ’900 era diventato un nevrotico. Ma Freud si lasciò
sfuggire tutti gli elementi da benandanti e s’intestardì su quale poteva essere
la scena originaria, primaria, da cui aveva preso vita la psicosi. E su tale Urszene cambiò idea tra 1896 e 1914: nella
prima fase si riferì infatti ad atti di seduzione compiuti contro bambini dagli
adulti, spesso parenti – le stesse streghe nelle loro confessioni sul sabba
avrebbero rielaborato traumi sessuali infantili subiti – nella seconda al coito
tra i genitori, oscillando in questo caso tra le ipotesi di esperienza
effettiva e fantasia retrospettiva. In ogni caso, ignorò ciò che irruppe nell’incubo
di quest’uomo: un contenuto antichissimo rintracciabile nelle estasi, o deliri,
di benandanti, streghe e lupi mannari. La sottile linea rossa, in conclusione di
questi saggi, un nucleo mitico che ha mantenuto intatta la sua vitalità per
millenni.
Marco Caneschi