di Helena Janeczek
Guanda, 2017
pp. 336
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Lei si era scelta il lavoro e il nome, Gerda Taro ed era morta in un incidente stupido e crudele, però in una guerra che, con le sue immagini, voleva vincere per tutti.
«Gerda Pohorylle sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa, in una città come Parigi»: e aveva voluto diventare fotografa, fotoreporter per l'esattezza, lei che si faceva chiamare Gerda Taro e che aveva imparato a usare la Leica con Robert Capa. Robert non era ancora nessuno quando si era unito a Gerda: aveva un aspetto dimesso e tanti sogni, ma poco coraggio per metterli in pratica. Con lei ha cambiato il suo nome Endre Friedmann nel più americaneggiante Robert Capa, ha iniziato a guardare la possibilità di trasferirsi e sperimentare la fotografia. Gerda ha acceso una miccia, che poi ha continuato a bruciare fino al grande fuoco d'artificio che è stato il titolo di Robert Capa miglior fotografo di guerra, nonché la fama mondiale:
In fin dei conti, con Gerda, non aveva messo al mondo che se stesso: Robert Capa. (p. 126)
Quello che molti non sanno è che spesso le sue foto sono state scattate da Gerda, perché i due usavano firmarsi indistintamente "Robert Capa" anche per questioni di convenienza.
Ma chi era davvero Gerda? Per capirlo, al di là dei luoghi comuni che la vedono come la ragazza di Capa o come un'eroina, la prima fotoreporter donna caduta a soli ventisette anni sul campo, Helena Janeczek ha fatto una scelta coraggiosa e complessa. Sono infatti due suoi ex amanti e una sua cara amica a raccontare di lei nelle tre diverse sezioni in cui è diviso il romanzo. Dunque non si tratta di una narrazione in ordine cronologico, come vorrebbe il genere biografico, ma di ricordi che si intrecciano, si accavallano, colgono l'inafferrabile Gerda da punti di vista differenti e assolutamente soggettivi. Questo, come si può immaginare, ha richiesto all'autrice uno sforzo ben maggiore, perché ogni volta ha dovuto adottare la prospettiva dei tre diversi narratori. Allora sono gli occhi di un innamorato non ricambiato e un po' gregario, Willy Chardack, a raccontare con un certo scetticismo la storia d'amore tra Gerda e Robert, che in quel periodo si concedeva varie avventure, con questa e quella ragazza da poco. Ma qualcosa è chiaro: il loro legame è diverso dagli altri, ha qualcosa di assoluto, di romanzesco, pur nella sua spontaneità di viversi giorno per giorno:
Gerda ridendo gli arruffa la testa: «Cosa vuoi dalla mia vita, André?»
«Non so. Giura che ci credi». (p. 93)
Se Ruth Cerf, l'amica di Lipsia, ricorda gli anni vissuti insieme e i sogni condivisi con Gerda mentre la Germania della grande disoccupazione getta le basi per l'affermazione hitleriana, Georg Kuritzkes intreccia i ricordi di Gerda a quelli della loro fugace storia, fatta d'amore clandestino rubato al freddo e alla guerra. A tutti, la sensuale quasi suo malgrado, libera e vitale Gerda ha lasciato un ricordo indelebile, qualcosa che ha scavato profondamente nelle vite di chi l'ha incontrata e che ancora risuona, a distanza di anni. Infatti, i tre narratori rievocano la comune conoscenza negli anni Sessanta, e questo distorce parte del loro racconto, ambientato invece negli anni Trenta: quando parlano di Gerda, sanno già come è andata la guerra, come è morta l'amica, come Capa si sia sentito distrutto senza di lei.
Ed è tutto questo che Helena Janeczek racconta ripercorrendo la storia dell'epoca, che ha così tante drammatiche consonanze con la crisi attuale, nel tratteggiare l'impoverimento delle famiglie, il dramma personale e sociale sempre più diffuso. Particolarmente consigliato per i lettori che amano la storia della grande fotografia, ma anche per chi desidera conoscere (sì, sembrerà proprio di averla vista) una donna unica del Novecento, che non ha esitato a perseguire i propri obiettivi e i propri ideali politici antifascisti e a testimoniare la storia, a qualunque costo:
«si trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri». (p. 186)
GMGhioni
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