Crociata e jihad.
Origini, storia, conseguenze (God’s armies. Crusade and jihad: origins, history, aftermath)
di Malcolm Lambert
Bollati Boringhieri, 2016
Traduzione di Massimo Scorsone
475 pp.
€ 26
Il titolo dell’ultimo lavoro del
medievalista britannico Malcolm Lambert mi ha incuriosito. Già autore
di un saggio interessante sulle eresie nell’Europa cristiana durante i primi
secoli dopo l’anno Mille, Lambert ha nello stile, molto british, uno dei suoi
punti di forza. La chiarezza e un indubbio rigore metodologico sono capaci di offrire
la molteplicità di sfaccettature che la
storia ha conosciuto ma qui siamo dinanzi a due concetti anche molto
“moderni”, specialmente quello di jihad.
Cosa possiamo trarre da questo
libro? Intanto le similitudini fra le due
religioni monoteiste, fra i processi che ne hanno accompagnato gli sviluppi:
cristianesimo e islam. Si ha come la sensazione che per un certo periodo di
tempo, diciamo fino alla presa di Costantinopoli del 1453 da parte delle truppe
ottomane guidate da Maometto II, entrambe si siano affaccendate nelle stesse questioni:
Gerusalemme, rapporti reciproci, riscoperta dei classici greci, cosa fare con i
resti dell’impero bizantino, eresie e correnti di pensiero nate nel proprio
seno e viste nei rispettivi campi come nemici interni ancora più insidiosi di
quelli esterni.
Sto semplificando, ovviamente,
anche per motivi recensori ma a scanso di equivoci, e come elemento critico nei
confronti del cristianesimo, tra le differenze maggiori possiamo annoverare
l’atteggiamento verso il terzo incomodo:
l’ebraismo. Se in terra cristiana gli ebrei se la sono vista brutta fin
dall’avvento della prima crociata, come i cristiani di rito ortodosso, nei
territori musulmani, seppur con differenze sostanziali tra califfo e califfo,
gli ebrei erano abbastanza tollerati, come i cristiani, a patto che pagassero
un pedaggio (salato) ogni anno.
La prima parte è la più
interessante e il focus è puntato sulla parte musulmana di cui si
ripercorrono le origini maomettane e le imprese dei primi califfi. Non è
questione di poco conto per due motivi: se da una parte con i primi califfi,
l’islam conosce uno sviluppo territoriale sorprendente grazie a una serie di
conquiste irrefrenabili, è in questi decenni che si va a formare la grande
divisione che ancora oggi contraddistingue l’islam, tra sunniti e sciiti. Ma non è finita qui: perché nasce anche il
sufismo, così come di mistici è caratterizzata l’Europa medievale, e prende
corpo il mutazilismo, una dottrina che sottraeva il Corano all’eternità della
parola divina e lo calava nel tempo, in sostanza nella realtà storica. Ed è
noto: la storia si interpreta e reinterpreta, adattandola alle situazioni
contingenti. Chissà se avessero vinto il mutaziliti.
Risale a questa epica islamica
anche la prima disquisizione sul concetto di jihad e come per ogni parola dal
significato non univoco, attorno a essa si formano due partiti, i falchi e le colombe. Da una parte c’è chi plasma il
concetto attorno alla sura coranica 9,5: «Quando poi saran
trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri (…) prendeteli, circondateli,
appostateli ovunque in imboscate». Mi pare ci sia poco da aggiungere. C’è anche
però chi interpreta il jihad in termini molto più individuali, intimi se
vogliamo, come lo sforzo nel cammino di
Dio che ogni credente dovrebbe compiere. Una sfida di fede, che nasce nel
proprio animo e lì si sviluppa.
D’altronde pure nei testi
cristiani ci sono passaggi poco pacifisti. Pensiamo a Matteo 10,34: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono
venuto a portare non pace, ma spada». I teologi si sono prodigati a
riportare tali passi a un significato
metaforico e non letterale. In
questo caso, Matteo avrebbe inteso che la scelta per il Vangelo è costosa in
termini di impegno nella vita e che il passaggio di Gesù non è neutro
o indolore. Ma se uno si mette in testa che Cristo è venuto a combattere, non c’è
filosofia che tenga.
Quando poi il saggio passa alle
crociate, ovvero alle guerre per Gerusalemme che cominciano nel 1098, il
racconto di Lambert propone una tesi
garbatamente provocatoria, che si evince: hanno cominciato i crociati.
Comunque, è qui che entriamo nella zona grigia che per
il cristianesimo e l’islam si è tradotta nel principio,
supportato teologicamente, dell’uccidere in nome di Dio. Un principio che il
primo ha tradotto con la crociata, il secondo con il jihad. Insomma, messi
di fronte e a distanza ravvicinata, la Terra Santa , i due contendenti avrebbero tratto
dal reciproco confronto lo stimolo a dare il peggio.
Oggi si insiste molto
sull’aspetto di “pellegrinaggio” delle crociate ma non bisogna dimenticarne quello
istituzionale: erano spedizioni militari, di un’imponenza che neanche i papi si
immaginavano, promosse e dirette dalla chiesa di Roma. Il soggetto attivo era
laico (re, principi, signori feudali e semplici fedeli, soprattutto franchi ma
un ruolo importante lo ebbero le italiane repubbliche marinare e poi l’elemento
tedesco durante la terza), ma il deus ex
machina era l’autorità suprema della cristianità. Il jihad dell’islam, reazione
inevitabile, è stato in quel periodo una guerra priva di dimensione
istituzionale, perfino un po’ anarchica, e anche chi se lo è assunto sulle
spalle, tipo Saladino, ha spesso dovuto fare i conti con le divisioni interne
al proprio campo.
Il problema, per il libro
intendo, è che con il passare dei capitoli perde in limpidità, la materia
d’altronde è tanta e il filo conduttore che le si vorrebbe apporre diventa
nebuloso. Al massimo concedo l’onore
delle armi ritenendolo una lettura introduttiva ma, francamente, non si
colgono le conseguenze storiche di quegli eventi. Certo, si giunge al
colonialismo e alla voracità della Francia e dell’impero britannico nei tempi
moderni, alla caduta dell’impero ottomano, rigirato come un calzino peraltro da
un figlio di quell’impero, Ataturk, ma perché, oggi, jihadisti e qualche novello crociato
vogliono riportare indietro di mille anni le lancette dell’orologio? Solo per
un’interpretazione arbitraria di una parola, di una sura o di un versetto del
Nuovo Testamento?
Una considerazione e due punti
deboli: si dice che l’islam non ha avuto l’illuminismo mentre l’Europa
cristiana sì. A parte il fatto che da parte di ambienti cattolici ancora ai
giorni nostri quello stesso illuminismo viene visto come fumo negli occhi e se
ne contestano, alla maniera di un De Maistre, radici e conseguenze, appare quantomeno paradossale che in epoca
illuministica, restando in ambito francese, l’interesse per l’Oriente islamico
conosca un’impennata inattesa. Basti pensare ad autori come Diderot e
Voltaire e alla traduzione delle “Mille e una Notte” che fu l’evento letterario
di tutto il Settecento.
Sulla scorta di questo arrivo
alle lacune: la prima è l’accenno che viene fatto a un anno fondamentale per la
storia europea. Il 1517. Sappiamo benissimo il putiferio che venne fuori da
quelle 95 tesi affisse all’uscio di una chiesa a Wittemberg da parte di Lutero.
Ebbene, in quegli stessi momenti, il
sultano Selim I rafforzava il divieto della stampa in arabo. Il primo
torchio a caratteri mobili arrivò nei territori ottomani nel 1727. Pensiamo
alla forza che ha avuto la stampa nello consentire la vittoria della Riforma, la Bibbia tradotta in tedesco
e la strada aperta al luterano sacerdozio universale e, più in generale, allo
sviluppo della lettura e della circolazione delle idee. A questa svolta, di cui
l’espressione politica suprema dell’islam è stata privata e che a me pare
fondamentale, si dedica, per l’appunto, un inciso.
La seconda: il mancato affondo
sull’analisi del XVIII secolo, quando il potere centenario dei musulmani
cominciò a indebolirsi a livello mondiale. Fu una coincidenza, ma le terre
emerse del pianeta che l’islam governava attraverso tre dinastie, gli ottomani dai Balcani alle città sacre dell’islam
al nord Africa, i safawidi in Persia e in Asia centrale, i moghul nel
subcontinente indiano, entrarono contemporaneamente in crisi e i dotti
reagirono ai cambiamenti aggrappandosi nuovamente all’erudizione richiesta da
una vera società islamica. Gli studiosi restrinsero le loro fonti di
osservazione al Corano e agli hadith,
le tradizioni scritte e orali risalenti a Maometto, rigettando qualsiasi
informazione proveniente dal mondo occidentale, in procinto peraltro di
colonizzare quei territori. Da una realtà aperta alle influenze esterne,
l’universo islamico si trasformò in una società sempre più chiusa fino ai
caratteri attuali. Forse è su questo passaggio che andrebbe scritto ben più di un
saggio.
Marco Caneschi
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