di Domenico Losurdo
Editori Laterza, 2017
pp. 210
€ 20.00
Nell'ultima fatica di Domenico Losurdo trova spazio una generosa trattazione tesa a indagare le cause e i particolari presupposti storici che hanno portato il marxismo, corrente filosofica nata nel cuore dell'Occidente, a diffondersi, dalla Rivoluzione d'Ottobre in poi, in ogni angolo del globo. L'incontro tra teorizzazione marxista e le differenti condizioni geopolitiche, economico-sociali, storico-culturali dei luoghi e dei popoli in cui l'ideologia prende piede riflettono i modi in cui questa viene diversamente declinata e interpretata: un processo di differenziazione che contiene già in nuce nelle sue cause quella che si determinerà quale frattura tra marxismo occidentale – sulla scia di un tacito compromesso con la politica di stampo aggressivamente liberista e su una presa di distanze quando non di esplicita negazione rispetto alle rivoluzioni anticolonialiste – e marxismo orientale, che sull'onda di queste invece si svilupperà.
È il primo conflitto mondiale a giocare un ruolo decisivo ai fini di una condanna nei confronti del sistema politico-sociale di stampo capitalistico; l'indignazione e il disgusto per la carneficina in atto non interesseranno solo l'Europa: i futuri dirigenti della Rivoluzione d'Ottobre vivranno la Grande Guerra come la dimostrazione definitiva dell'orrore intrinseco alla macchina imperialistica e dell'assoluta necessità di un suo rovesciamento. In Cina, invece, l'oppressione colonialista ha già rivelato la propria carica distruttiva prima del 1914: il ricordo delle guerre dell'oppio e l'imposizione di clausole inique a una Cina umiliata e ridotta alla stregua di colonia commerciale da parte delle potenze occidentali è ancora vivido. La seconda guerra sino-giapponese, la deumanizzazione messa in atto dalla potenza nipponica nei confronti della popolazione cinese, l'assenza di un'industria pesante che permetta al Paese di difendersi adeguatamente sono eventi traumatici che non possono, secondo il punto di vista dell'autore, non venire tenuti in considerazione ai fini di un'analisi obiettiva della nascita e dei successivi sviluppi della Repubblica popolare cinese. Allo stesso modo non è possibile prescindere, nell'accingersi all'esame degli sviluppi concreti del bolscevismo dall'esigenza, da parte dell'Unione Sovietica, di sottrarsi al giogo dell'imperialismo, una possibilità paventata dalla volontà del Terzo Reich di ridurre milioni di russi alla condizione di schiavi coloniali. A questo proposito Losurdo introduce il dilemma posto già a suo tempo da Nikolaj F. Daniel'son riguardo alle problematiche alle cui i socialisti, una volta conquistato il potere, avrebbero dovuto far fronte e, in modo particolare, fa il punto sullo sviluppo di un'industria ai fini bellici come condizione sine qua non delle nascenti entità politiche per non subire l'assoggettamento. A quale lotta dare la priorità, a quella per un'eguaglianza sociale o a quella per il raggiungimento dell'eguaglianza con gli altri paesi? E, soprattutto, in che misura l'una è condizionata dall'altra?
E dunque: quale delle due diseguaglianze doveva in primo luogo essere presa di mira, quella interna alla Russia o quella globale e planetaria?
Il dilemma di Daniel'son diventava tanto più pressante quanto più la rivoluzione guidata da un partito comunista investiva paesi in condizioni ancora più arretrate di quelle proprie della Russia zarista. La priorità della lotta contro la diseguglianza globale e la rapida modernizzazione s'imponevano non solo per consolidare l'indipendenza, ma anche per sventare una volta per sempre il pericolo delle ricorrenti carestie e dare concretezza a ogni livello all'ideale dell'eguaglianza. Esemplare è il caso della Cina. Una volta assicurata la vittoria contro l'imperialismo giapponese, Mao si affrettava a chiarire che la lotta contro il colonialismo e il neocolonialismo era tutt'altro che conclusa: la «reale e autentica parità di diritti» comportava incisive trasformazioni chiamate a colmare a ogni livello il distacco rispetto ai paesi più avanzati; «altrimenti l'indipendenza e l'eguaglianza saranno nominali e non effettive» (Mao Zedong 1945/1969-75, vol. 3, p. 268). Già enunciato mentre la Cina attraversava il periodo più tragico della sua storia, l'obiettivo della «modernizzazione» assumeva un ruolo sempre più centrale man mano che si avvicinava alla liberazione. Mao (1949/1969-75, vol. 4, p. 425) definiva con chiarezza il suo programma di governo: «solo la modernizzazione» può «salvare la Cina». E modernizzare significava impegnarsi a recuperare il ritardo rispetto ai paesi più avanzati, in modo da stabilire con essi un rapporto di sostanziale eguaglianza anche sul piano economico e tecnologico.
E se la lotta tra colonialismo e anticolonialismo caratterizzò la storia della Repubblica popolare cinese nell'arco della sua realizzazione ed evoluzione, lo stesso accadde per altri paesi di orientamento socialista, esposti al pericolo della perdita dell'indipendenza economica e politica.
Dilemma, quello di Daniel'son, per lo più ignorato dal marxismo occidentale, colpevole di aver mancato l'incontro con la rivoluzione anticoloniale: una delle sezioni più interessanti del saggio di Losurdo è probabilmente la storia del fallimento di questo confronto, della prospettiva eurocentrica portata avanti dal marxismo occidentale, dal porre l'accento sull'operaismo e sulla condanna del terzomondismo alla rimozione della questione coloniale e al disinteresse per le trame del neo-imperialismo. A finire sul banco degli imputati sono molti dei maggiori teorici e filosofi a essersi variamente confrontati con un pensiero di ispirazione marxista: da Della Volpe e Colletti sino a Tronti; vengono inoltre biasimati gli errori teorici di Althusser e la celebrazione degli USA da parte di Bloch; vengono scandagliate l'opera di Adorno e la condanna dell'autoritarismo di cui si dice fautore Horkheimer (secondo Losurdo, le speculazioni del filosofo tedesco finirebbero per sfociare nel filo-colonialismo e in un atteggiamento di disattenzione e ostile diffidenza nei confronti della rivoluzione anticoloniale mondiale in atto), fino a Sartre, Timpanaro, Arendt, Foucault, Hardt e Negri, Žižek e Badiou. Nessuno di essi esce indenne dalla corrosiva indagine di Losurdo che, con voce appassionata, relaziona costantemente l'involuzione dell'ideologia marxista di stampo occidentale a un'ottica volontariamente immemore la quale, voltando sdegnosamente le spalle al marxismo orientale e al socialismo de facto, meritevole di esser stato fautore della decolonizzazione di gran parte del cosiddetto “Terzo Mondo”, non è stata in grado di cogliere – ora più che mai – il pericolo di quella inesauribile fonte di diseguaglianze rappresentata dal neo-imperialismo, appena velata dalla appena più rassicurante voce “globalizzazione”. Ormai inestricabilmente legata alla tradizione liberale britannica e statunitense - e incapace di riconoscerne i limiti e i paradossi - e vittima della contraddizione secondo cui il quid del discorso socialista verrebbe a coincidere con un'attitudine polemica piuttosto che con la lotta per la trasformazione della realtà politico-sociale, l'ideologia marxista sembra, in occidente, essere “attaccata al respiratore”, condannata da intrinseche istanze messianiche a privilegiare un futuro remoto e utopico rispetto a quello incalzante. Condizione indispensabile, secondo Losurdo, per una sua possibile rinascita è dunque superare tale “amputazione temporale” e, con essa, “l'amputazione spaziale” che comporterebbe: concentrarsi su un futuro remoto significa non comprendere in questo quadro anche quei paesi che faticosamente si sono portati sulla soglia della modernità. Si tratta di riprendere contatto con la rivoluzione anticolonialista mondiale, uno dei più eclatanti contenuti del Novecento, ancora in fieri.
È proprio nel rivolgere l'attenzione a una scrupolosa indagine del fenomeno imperialista e coloniale, nel mettere a nudo le contraddizioni storiche inerenti alla politica interna statunitense e nel sottolineare l'aggressiva politica estera di questo Stato, a torto definito come modello di compiuta emancipazione politica, nel ripercorrere la demonizzazione di popoli che hanno faticosamente lottato per la conquista di una propria indipendenza e, in questo quadro, nell'evidenziare lo scandaloso ruolo svolto dall'aggressiva politica coloniale di Israele, che il volume di Losurdo risulta uno strumento interpretativo utile a una risolutiva lettura delle tensioni che, a livello globale, animano l'era contemporanea, epoca in cui efficaci meccanismi di rimozione - è salutare sottolinearlo - sono ancora in atto.
Ma se ogni ideologia applicata a modelli di governo e di organizzazione economica e sociale non può prescindere dalla storia pregressa che a quel particolare sviluppo ha fatto da premessa, e se un'imponente opera di teorizzazione è stata attuata per poter pensare come categoria indispensabile l'egemonia capitalista, allo stesso modo gioverebbe soffermarsi più approfonditamente su quelli che con troppa evidenza appaiono, ne Il marxismo occidentale, come sacrifici necessari e non come gli immensi errori di valutazione che furono e che avvennero in nome della più rapida edificazione di un futuro prossimo (categoria del pensiero che, in effetti, la sinistra nostrana pare aver estirpato). Il pericolo in agguato è infatti, oltre a quello di un rischioso giustificazionismo, la sostituzione di un'opera di rimozione con un'altra e, nel mezzo, la possibilità lasciarsi sfuggire la cangiante problematicità del reale con tutte le sue criticità e il modo in cui essa, per sua stessa natura, rifiuti ogni rigidità imposta dal pensiero umano. E forse, ogni possibile interpretazione e riabilitazione del pensiero marxista potrà darsi solo in virtù della ferma consapevolezza di questo scarto.
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