di Dag Solstad
Iperborea, 2017
187 pp.
€ 16,50
Cosa resta della vita di una persona quando la spogliamo di ambizioni, affetti, afflato religioso, passioni? Cosa succede, cioè, nella vita di una persona quando scompare il senso delle cose, quel quid che spinge a prendere decisioni e compiere azioni secondo scopi e obiettivi? La risposta è al contempo semplice e annichilente: succede che, qualsiasi cosa si faccia, tutto risolta ugualmente piatto e incolore. L'esistenza diviene indifferenza.
È l'indifferenza, insieme all'altro grande abisso dell'umanità costituito dalla solitudine, il tema centrale di Romanzo 11, Libro 18: quella stessa indifferenza che nella Nausea di Jean-Paul Sartre fa dire al protagonista Antoine Roquentin «è strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa». Ma mentre nella Nausea questa indifferenza emerge in tutta la sua drammaticità, nel romanzo di Solstad rimane una nenia di fondo, un white noise che disturba tutte le comunicazioni dalla prima all'ultima pagina.
La vita di Bjørn Hansen è un enorme vuoto esistenziale rivestito da una patina borghese tardo novecentesca: ha una moglie e un figlio, una casa e una laurea in economica in grado di aprire le porte a qualsivoglia mansione nella Norvegia degli anni settanta e ottanta. Eppure gli eventi che lo colpiscono sembrano totalmente dominati da una mancanza di linearità e di scopo. L'abbandono della famiglia – moglie e figlio di due anni – per l'avventura romantica con l'avvenente Turid Lammers e la successiva conclusione dell'avventura stessa, ormai trasformatasi in una relazione di quattordici anni; il seguire la compagna nell'impresa teatrale di una piccola cittadina norvegese sperduta nel nulla; il candidarsi al ruolo di esattore comunale e la prospettiva di una carriera senza prospettive; l'accettazione e la successiva repulsione verso quel figlio abbandonato diciotto anni prima; la truffa contro lo stato norvegese al solo scopo di urlare un metaforico NO: se al posto di queste cose a Bjørn Hansen ne fossero capitate altre, per lui tutto sarebbe stato assolutamente identico. Avrebbe accettato quegli eventi, così come ne avrebbe accettati altri, con la medesima pacata indifferenza e rassegnazione.
Lo sguardo del protagonista sul mondo è grigio. Diciotto anni passano nel libro e nulla sembra cambiare tranne ciò che, inevitabilmente accade: le persone invecchiano, le passioni si affievoliscono, le cose finiscono. Poiché niente accade di rilevante, ciò che resta è una questione di consapevolezza: mentre nella Nausea sartriana il protagonista realizza quanto tutto sia «ugualmente indifferente», qui assistiamo da spettatori esterni a una disfatta senza morti, a una guerra persa senza neanche essere stata combattuta. Le cose iniziano, le cose finiscono. Altre avrebbero potuto iniziare e finire, e niente sarebbe cambiato. La vita di Bjørn Hansen si riduce a mera esistenza nel momento in cui il suo apparire sul palcoscenico del mondo non lascia alcunché di rilevante per se stesso o per le persone che lo circondano. Non è un protagonista, non è un eroe; ma non è neanche un antieroe o un inetto sveviano: è quell'indifferente nei confronti della costruzione di un senso della vita che lo porta a essere nulla.
Se tutto questo si può dire riguardo l'indifferenza, altrettanto può essere fatto per la solitudine, che si concretizza nell'estrema fragilità dei rapporti umani stabiliti dal protagonista: l'abbandono di ogni impresa e di ogni essere vivente per perseguire obiettivi altri, sempre di là da decifrarsi, fornisce a noi lettori la caratura del tutto. Il grande amore per Turid Lammers si spegne quando la donna semplicemente invecchia e perde di bellezza; l'affetto per quel figlio abbandonato, e il cui ritorno improvviso potrebbe dare senso a una vita altrimenti vuota, svanisce quando Bjørn Hansen capisce di non sopportare la sua boria e vanità; l'amicizia con il dottor Schiøtz può essere quantificata in ottantamila corone norvegesi. È tutto qui, tutto veramente qui. Non c'è altro in questi rapporti umani all'infuori di una mera compresenza sul palcoscenico, un convivere assolutamente neutrale. Nessun dramma, nessuna sofferenza. Come per le "cose", anche qui possiamo dire: i rapporti iniziano, i rapporti finiscono. Amen, andiamo in pace.
Dag Solstad mette in scena dunque un romanzo che si potrebbe definire amaro se non fosse avvolto da un velo di nichilismo esistenziale che scolora ogni sensazione. Il suo è un testo che riflette in modo lucido la condizione post moderna fatta di falsi miti, tecnologia e ideologie morte ma ancora non sepolte; luci che sembrano guidare l'uomo nelle strade fredde della città in cui vive, se non fosse che sono luci artificiali e insegne al neon che nulla hanno di umano, neanche la parvenza.
David Valentini
È l'indifferenza, insieme all'altro grande abisso dell'umanità costituito dalla solitudine, il tema centrale di Romanzo 11, Libro 18: quella stessa indifferenza che nella Nausea di Jean-Paul Sartre fa dire al protagonista Antoine Roquentin «è strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa». Ma mentre nella Nausea questa indifferenza emerge in tutta la sua drammaticità, nel romanzo di Solstad rimane una nenia di fondo, un white noise che disturba tutte le comunicazioni dalla prima all'ultima pagina.
La vita di Bjørn Hansen è un enorme vuoto esistenziale rivestito da una patina borghese tardo novecentesca: ha una moglie e un figlio, una casa e una laurea in economica in grado di aprire le porte a qualsivoglia mansione nella Norvegia degli anni settanta e ottanta. Eppure gli eventi che lo colpiscono sembrano totalmente dominati da una mancanza di linearità e di scopo. L'abbandono della famiglia – moglie e figlio di due anni – per l'avventura romantica con l'avvenente Turid Lammers e la successiva conclusione dell'avventura stessa, ormai trasformatasi in una relazione di quattordici anni; il seguire la compagna nell'impresa teatrale di una piccola cittadina norvegese sperduta nel nulla; il candidarsi al ruolo di esattore comunale e la prospettiva di una carriera senza prospettive; l'accettazione e la successiva repulsione verso quel figlio abbandonato diciotto anni prima; la truffa contro lo stato norvegese al solo scopo di urlare un metaforico NO: se al posto di queste cose a Bjørn Hansen ne fossero capitate altre, per lui tutto sarebbe stato assolutamente identico. Avrebbe accettato quegli eventi, così come ne avrebbe accettati altri, con la medesima pacata indifferenza e rassegnazione.
Lo sguardo del protagonista sul mondo è grigio. Diciotto anni passano nel libro e nulla sembra cambiare tranne ciò che, inevitabilmente accade: le persone invecchiano, le passioni si affievoliscono, le cose finiscono. Poiché niente accade di rilevante, ciò che resta è una questione di consapevolezza: mentre nella Nausea sartriana il protagonista realizza quanto tutto sia «ugualmente indifferente», qui assistiamo da spettatori esterni a una disfatta senza morti, a una guerra persa senza neanche essere stata combattuta. Le cose iniziano, le cose finiscono. Altre avrebbero potuto iniziare e finire, e niente sarebbe cambiato. La vita di Bjørn Hansen si riduce a mera esistenza nel momento in cui il suo apparire sul palcoscenico del mondo non lascia alcunché di rilevante per se stesso o per le persone che lo circondano. Non è un protagonista, non è un eroe; ma non è neanche un antieroe o un inetto sveviano: è quell'indifferente nei confronti della costruzione di un senso della vita che lo porta a essere nulla.
Se tutto questo si può dire riguardo l'indifferenza, altrettanto può essere fatto per la solitudine, che si concretizza nell'estrema fragilità dei rapporti umani stabiliti dal protagonista: l'abbandono di ogni impresa e di ogni essere vivente per perseguire obiettivi altri, sempre di là da decifrarsi, fornisce a noi lettori la caratura del tutto. Il grande amore per Turid Lammers si spegne quando la donna semplicemente invecchia e perde di bellezza; l'affetto per quel figlio abbandonato, e il cui ritorno improvviso potrebbe dare senso a una vita altrimenti vuota, svanisce quando Bjørn Hansen capisce di non sopportare la sua boria e vanità; l'amicizia con il dottor Schiøtz può essere quantificata in ottantamila corone norvegesi. È tutto qui, tutto veramente qui. Non c'è altro in questi rapporti umani all'infuori di una mera compresenza sul palcoscenico, un convivere assolutamente neutrale. Nessun dramma, nessuna sofferenza. Come per le "cose", anche qui possiamo dire: i rapporti iniziano, i rapporti finiscono. Amen, andiamo in pace.
Dag Solstad mette in scena dunque un romanzo che si potrebbe definire amaro se non fosse avvolto da un velo di nichilismo esistenziale che scolora ogni sensazione. Il suo è un testo che riflette in modo lucido la condizione post moderna fatta di falsi miti, tecnologia e ideologie morte ma ancora non sepolte; luci che sembrano guidare l'uomo nelle strade fredde della città in cui vive, se non fosse che sono luci artificiali e insegne al neon che nulla hanno di umano, neanche la parvenza.
David Valentini
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