Tutto è possibile
di Elizabeth Strout
Einaudi, settembre 2017
Traduzione di Susanna Basso
pp. 216
€ 19 (cartaceo)
Ci sono tante, tantissime sfumature e chiavi di lettura in questo ultimo romanzo della scrittrice Premio Pulitzer Elizabeth Strout appena pubblicato da Einaudi: tante, come la varietà dei personaggi che lo compongono, un microcosmo di uomini e donne ordinari, alle prese con la vita, i suoi guai, le gioie semplici. E, come ha sottolineato l’autrice stessa nel corso del bellissimo incontro a cui ho avuto il privilegio di partecipare (prestissimo la cronaca), ogni lettore trova la propria chiave per entrare nella storia, che si svela ogni volta diversa, in qualche modo. Per me, Tutto è possibile, è un canto di speranza: un inno alla vita, alle possibilità, alla connessione tra esseri umani, al potere salvifico dell’amore in ogni sua forma, alla caparbietà e alla forza che è dentro ognuno di noi. E non è affatto così scontato in una storia umanissima e piena di angoli bui, difficoltà, cadute, fantasmi di un passato con cui sembra impossibile riuscire a venire a patti, solitudini e meschinità, crudeltà a tratti.
Il “romanzo” – le virgolette sono d’obbligo, come si vedrà, in riferimento a questo tipo di narrazione – si riallaccia a Mi chiamo Lucy Barton, di cui non è propriamente un sequel ma, potremmo dire, un ampliamento di orizzonte, il tentativo di ricostruire qualcosa del mondo di Lucy e dare voce a tutti quei personaggi che lo compongono, in qualche modo più o meno collegati a lei e protagonisti della vicenda. Lucy Barton, infatti, è evocata spesso, ma compare solo brevemente, apparizione fugace in un capitolo particolarmente intenso, che perfino letto da solo varrebbe tutta la storia.
Ma il cuore della vicenda, questa volta, sono gli uomini e le donne della piccola comunità di Amgash, Illinois, quel Midwest tanto caro a Strout: un microcosmo di umanità, debolezze, colpe, sentimenti imperfetti, traumi di un passato che pare impossibile superare davvero del tutto, e lampi di luce e bellezza abbaglianti. La provincia, il racconto del quotidiano, la vita semplice, la narrazione scarna, sono elementi che tornano spesso nella narrativa americana contemporanea, ma non è affatto facile riuscire a dare equilibrio alla storia, avvincere il lettore facendo leva solo su quei lampi di vita, l’ordinario che – come penso spesso – la grande letteratura sa trasformare in straordinario. E, come lettori, credo richieda uno sforzo in più abbandonarsi a storie di questo genere, così intime, delicate, ma universali come lo sono le passioni e i tormenti dell’uomo: non ci sono colpi di scena o avvenimenti eccezionali, ma esseri umani alle prese con le proprie debolezze e sbagli, le imperfezioni della vita che qualche volta sono impossibili da sopportare, le piccole gioie quotidiane, i desideri semplici, i sentimenti. Una narrazione così profondamente americana, in cui riecheggia l’influenza dei grandi maestri del passato ma che non manca di affinità anche con la celebrata Trilogia della pianura di Haruf e, come si vedrà, con la short story, forma molto cara ad Elizabeth Strout.
Numerosi i temi e gli spunti che emergono dalla lettura, alcuni dei quali si rincorrono nell’opera di Strout assumendo nuove sfumature. C’è la famiglia, quasi sempre disfunzionale, ritratta in questo romanzo nelle difficoltà, materiali o affettive, i silenzi, le mancanze, le delusioni, e il contrasto con modelli coniugali più positivi, come nel caso, per esempio, dei coniugi Guptill:
Durante i tragitti verso la mensa dei poveri di Carlisle, Pete aveva notato quanto fossero affettuosi i Guptill l’uno con l’altra; spesso Shirley appoggiava una mano sul braccio di Tommy mentre lui guidava. Pete si era chiesto, come sarà sentirsi così liberi, poter toccare una persona con tanta disinvoltura.
La semplice intimità che Shirley e Tommy condividono, colpisce profondamente chi non ha conosciuto la stessa felicità, lo stesso modello di famiglia, e se ne sorprende, non riuscendo a capire fino in fondo. E diventare adulti, con un passato che pesa come un macigno, diventa ancora più complicato. Fare i conti con i propri fantasmi, le famiglia disfunzionali in cui si è cresciuti, l’abbandono, la povertà, il trauma della guerra, la perdita, lasciano tracce indelebili e condizionano le scelte. Sono cicatrici, non sempre visibili ma ancora più dolorose, crepe che qualche volta abbiamo bisogno di mostrare al mondo, per essere compresi, amati:
Guarda quella signora come piega la testa, non capisce. Non sa spiegarsi cosa significano i piatti crepati nelle tue foto.Karen-Lucie disse: - Significano che sono crepata come quei piatti anch’io.
Siamo tutti adulti imperfetti, con il nostro carico di sogni e disillusioni, felicità e disperazione, e come tali amiamo anche in modo imperfetto, ma forse, alla fine «va bene così». E cerchiamo un momento di connessione che ci salvi dal terrore della solitudine, qualcuno che riconosca nei nostri occhi il bisogno di calore, affetto.
Nel corso dell’incontro, Strout ha detto qualcosa che mi ha molto colpito: mi interessano le persone, non la storia. Ecco, il senso di Tutto è possibile è – anche – questo, la forza dei legami, la solidarietà, la gentilezza di un gesto semplice, l’empatia. Ancora più forte in una storia di umana fragilità, di dolori sepolti, mancanze.
Eppure, nonostante tutto, c’è speranza e bellezza.
A partire dalla scrittura stessa, resa magnificamente dalla bravissima Susanna Basso, così intima, essenziale, mai ridondante, chiara, e per questo capace di esaltare l’intensità dei sentimenti e delle vicende narrate, in un gioco di contrasti, sottrazioni, spazi bianchi e non detto che Strout padroneggia in modo perfetto. Quella di Strout è, infatti, una scrittura che deve moltissimo alla short story, i cui echi e forme ritornano spesso anche in modalità espressive differenti e che si fida del lettore, facendogli dono di qualcosa che, nel romanzo contemporaneo, troppo spesso è dimenticato: la possibilità di riempire da sé i “vuoti” della narrazione, di interpretare ed immaginare che cosa si nasconde oltre la superficie. E, in questo caso, credere a quella «verità perfetta» anche se non sempre immediata da riconoscere:
Tutto era possibile, per tutti.
Debora Lambruschini
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