di Eva Cantarella
Feltrinelli, 2017
pp. 139
€ 14 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per chi ama la storia antica, ogni nuova uscita di Eva Cantarella è una festa: non solo per la precisione delle fonti citate, ma anche per la piacevolezza del dettato. Anche con questo Come uccidere il padre, uscito da poco per Feltrinelli, Cantarella conferma il suo talento nell'interessare il lettore, testimoniando quanto la storia possa essere avvincente. Tra storia, giurisprudenza, antropologia, il nuovo volume si interroga sull'estrema conflittualità che ha caratterizzato la società romana, fin dalle sue origini, e che ancora serpeggia nel nostro presente, drammaticamente marchiato dalla cronaca nera.
Ma non si pensi che l'autrice si lanci in pindarici ponti che collegano forzatamente passato e presente: no, al di là di riflessioni altamente ispirate al buonsenso, si concentra su ciò che sa fare meglio, ovvero raccontare la storia antica. I rapporti familiari hanno sempre interessato i suoi studi: si pensi, ad esempio, ai bellissimi Passato prossimo, Dammi mille baci, o al più affine Non sei più mio padre, dedicato però ai Greci.
Questa volta, Eva Cantarella fa luce sui rapporti davvero complessi tra padri e figli a Roma, sempre volti a una forte conflittualità. Per quali ragioni? Innanzitutto, il paterfamilias esercitava una fortissima patria potestas: avevano diritti amplissimi, sia sul corpo (come esporre i nuovi nati, vendere anche più volte i figli o metterli a morte in caso di crimini pubblici), sia sulla gestione del patrimonio familiare. Infatti, i figli vivevano all'ombra del padre anche perché le terre e i beni remunerativi restavano sempre nelle sue mani fino alla morte. Per quanto l'incubo della dipendenza dei figli venisse tenuta a bada con una somma di denaro e di beni affidata dal padre (peculium), spesso aleggiava il terrore della diseredazione e/o dell'arrivo di un rivale, ovvero di un figlio adottato. Anche sulla vita personale il padre aveva larghi poteri decisionali: era lui a scegliere il coniuge più opportuno per il figlio o la figlia, ma poteva anche interrompere le nozze per un legame più vantaggioso.
Parricidio più che "giustificato"? Non proprio: ai tempi dei Romani era normale che la famiglia patriarcale si muovesse sotto l'egida di istituzioni rigide e comportamenti autoritari, almeno fino al IV secolo d.C., quando l'influsso del cristianesimo e i cambiamenti avvenuti durante i primi due secoli dell'Impero hanno messo in crisi il paterfamilias. I suoi poteri sono stati prudentemente, ma progressivamente ridimensionati, trasformando anche il suo sguardo su figli, moglie, schiavi,...
D'altro canto, come dimostra Eva Cantarella in una sezione dedicata a una prospettiva sui padri, non era raro che questi temessero i propri figli. Non di rado, infatti, venivano percossi e dovevano "plorare", ovvero chiamare aiuto a gran voce, perché i vicini accorressero e fermassero la violenza. Il figlio che si macchiava di questa colpa veniva "consacrato": da quel momento, ognuno poteva liberamente ucciderlo, spedendolo agli dèi, a cui ormai apparteneva di diritto. Ma la pena più crudele, nonché forte al punto da imporsi nell'immaginario comune e restare misteriora e fascinosa fino a oggi è la cosiddetta poena cullei, su cui Cantarella si sofferma in un apposito capitolo. Si tratta della pena riservata al parricida, il quale, chiuso in un sacco di cuoio insieme a una scimmia, a una vipera, a un cane e a un gallo gallinaccio (cappone), veniva gettato in mare o in un corso d'acqua. E non mancano le interpretazioni fantasiose sulla presenza di questi animali o sul perché il colpevole venisse scortato in carcere indossando zoccoli di legno e un cappuccio di pelle di lupo.
Se questo è forse il culmine del saggio, proseguono le curiosità e le smaccate differenze con il presente nel capitolo dedicato alla relatività dei sentimenti, vissuti in modo decisamente diverso rispetto alla contemporaneità. Se l'affetto dei genitori verso i figli è oggigiorno perlopiù scontato nella maggior parte delle famiglie, all'epoca non era affatto così: basti leggere Cicerone, ad esempio, che nel De officiis ricollega l'affetto del figlio verso il padre come qualcosa di dovuto, visto che il genitore gli ha dato la vita, bene incommensurabile e mai pienamente ripagato. Ma - fortunatamente - ci sono anche manifestazioni d'amore disinteressato e manifestato in modi quantomeno singolari, come emerge dalla lettura di alcuni passi di Valerio Massimo nei suoi Detti e fatti memorabili. Uno dei casi più discussi, nonché prova concreta di amore verso il figlio, è anche una delle controversiae più gettonate a scuola: come si comporta il padre, se il figlio si innamora della sua giovane matrigna? Il caso, infatti, è tutt'altro che raro, vista l'incidenza nelle fonti. E la risposta alla presente quaestio è imprevedibile, come dimostrano gli esempi.
Un libro complesso da concludere, confessa Eva Cantarella nelle ultime pagine. In effetti, difficile, sì, anche per noi che in realtà continuiamo a riflettere ben oltre la fine del volume su un mondo che diamo troppo spesso per scontato, non immaginando quali incredibili (in senso etimologico) pregiudizi ci impediscano spesso di vedere il passato per quello che le fonti riportano. Per quanto i contenuti del saggio non siano del tutto nuovi (rintoccano episodi presentati da Catarella nei suoi lavori precedenti, come pure una dichiarata ispirazione agli studi di Veyne), Come uccidere il padre è utilissimo per chi non ha mai indagato i rapporti tra genitori e figli nell'antichità; e anche chi lo ha fatto può scoprire dettagli, episodi e fonti decisamente illuminanti.
GMGhioni
Questa volta, Eva Cantarella fa luce sui rapporti davvero complessi tra padri e figli a Roma, sempre volti a una forte conflittualità. Per quali ragioni? Innanzitutto, il paterfamilias esercitava una fortissima patria potestas: avevano diritti amplissimi, sia sul corpo (come esporre i nuovi nati, vendere anche più volte i figli o metterli a morte in caso di crimini pubblici), sia sulla gestione del patrimonio familiare. Infatti, i figli vivevano all'ombra del padre anche perché le terre e i beni remunerativi restavano sempre nelle sue mani fino alla morte. Per quanto l'incubo della dipendenza dei figli venisse tenuta a bada con una somma di denaro e di beni affidata dal padre (peculium), spesso aleggiava il terrore della diseredazione e/o dell'arrivo di un rivale, ovvero di un figlio adottato. Anche sulla vita personale il padre aveva larghi poteri decisionali: era lui a scegliere il coniuge più opportuno per il figlio o la figlia, ma poteva anche interrompere le nozze per un legame più vantaggioso.
Parricidio più che "giustificato"? Non proprio: ai tempi dei Romani era normale che la famiglia patriarcale si muovesse sotto l'egida di istituzioni rigide e comportamenti autoritari, almeno fino al IV secolo d.C., quando l'influsso del cristianesimo e i cambiamenti avvenuti durante i primi due secoli dell'Impero hanno messo in crisi il paterfamilias. I suoi poteri sono stati prudentemente, ma progressivamente ridimensionati, trasformando anche il suo sguardo su figli, moglie, schiavi,...
D'altro canto, come dimostra Eva Cantarella in una sezione dedicata a una prospettiva sui padri, non era raro che questi temessero i propri figli. Non di rado, infatti, venivano percossi e dovevano "plorare", ovvero chiamare aiuto a gran voce, perché i vicini accorressero e fermassero la violenza. Il figlio che si macchiava di questa colpa veniva "consacrato": da quel momento, ognuno poteva liberamente ucciderlo, spedendolo agli dèi, a cui ormai apparteneva di diritto. Ma la pena più crudele, nonché forte al punto da imporsi nell'immaginario comune e restare misteriora e fascinosa fino a oggi è la cosiddetta poena cullei, su cui Cantarella si sofferma in un apposito capitolo. Si tratta della pena riservata al parricida, il quale, chiuso in un sacco di cuoio insieme a una scimmia, a una vipera, a un cane e a un gallo gallinaccio (cappone), veniva gettato in mare o in un corso d'acqua. E non mancano le interpretazioni fantasiose sulla presenza di questi animali o sul perché il colpevole venisse scortato in carcere indossando zoccoli di legno e un cappuccio di pelle di lupo.
Se questo è forse il culmine del saggio, proseguono le curiosità e le smaccate differenze con il presente nel capitolo dedicato alla relatività dei sentimenti, vissuti in modo decisamente diverso rispetto alla contemporaneità. Se l'affetto dei genitori verso i figli è oggigiorno perlopiù scontato nella maggior parte delle famiglie, all'epoca non era affatto così: basti leggere Cicerone, ad esempio, che nel De officiis ricollega l'affetto del figlio verso il padre come qualcosa di dovuto, visto che il genitore gli ha dato la vita, bene incommensurabile e mai pienamente ripagato. Ma - fortunatamente - ci sono anche manifestazioni d'amore disinteressato e manifestato in modi quantomeno singolari, come emerge dalla lettura di alcuni passi di Valerio Massimo nei suoi Detti e fatti memorabili. Uno dei casi più discussi, nonché prova concreta di amore verso il figlio, è anche una delle controversiae più gettonate a scuola: come si comporta il padre, se il figlio si innamora della sua giovane matrigna? Il caso, infatti, è tutt'altro che raro, vista l'incidenza nelle fonti. E la risposta alla presente quaestio è imprevedibile, come dimostrano gli esempi.
Un libro complesso da concludere, confessa Eva Cantarella nelle ultime pagine. In effetti, difficile, sì, anche per noi che in realtà continuiamo a riflettere ben oltre la fine del volume su un mondo che diamo troppo spesso per scontato, non immaginando quali incredibili (in senso etimologico) pregiudizi ci impediscano spesso di vedere il passato per quello che le fonti riportano. Per quanto i contenuti del saggio non siano del tutto nuovi (rintoccano episodi presentati da Catarella nei suoi lavori precedenti, come pure una dichiarata ispirazione agli studi di Veyne), Come uccidere il padre è utilissimo per chi non ha mai indagato i rapporti tra genitori e figli nell'antichità; e anche chi lo ha fatto può scoprire dettagli, episodi e fonti decisamente illuminanti.
GMGhioni