Bruno Morchio, genovese, è lo scrittore creatore del personaggio di Bacci Pagano, investigatore privato protagonista di una fortunata serie iniziata tra le mura della F.lli Frilli Editori e accasatasi tra quelle di Garzanti. Tra i titoli più significativi menziono Maccaia e Rossoamaro, quest’ultimo probabilmente il più intimo e interessante per quanto riguarda il passato e la psicologia di Bacci Pagano. Un personaggio che con giustizia è considerato alla stregua di Pepe Carvalho e Fabio Montale, e di cui ho avuto modo di parlare su queste stesse pagine. Tuttavia, negli ultimi anni, Bruno Morchio ha dimostrato di non essere solo Bacci Pagano, ma di andare oltre. Con Rizzoli ha infatti pubblicato il romanzo di spionaggio Il testamento del Greco e, da poche settimane, il giallo Un piede in due scarpe, recentemente recensito sempre su Critica Letteraria.
DOMANDA: Dopo il noir e la spy-story, approdi al giallo classico con Un piede in due scarpe. Se ne Il testamento del Greco (Rizzoli, 2015) il tuo lettore riconosce alcuni tratti della serie di Bacci Pagano, qui siamo su un altro piano. Perché?
RISPOSTA: D’accordo con te, qui siamo nel “giallo classico”, storia poliziesca dove il morto è all’inizio e la scoperta dell’assassino alla fine. Il tono è leggero, ironico; dipenderà dal fatto che uso la terza persona? La voce narrante di Bacci Pagano è spesso ironica, talvolta distaccata, ma quando arrivano le “note calde” il nostro detective si infiamma e rivela tutta la sua natura passionale. Qui a parlare è un narratore terzo, che spesso si focalizza sul punto di vista dei personaggi (sempre uomini: Paolo Luzi, Ingravallo, Aleotti, Marco Treves) ma è macroscopica la scollatura fra scrittura e storia, fra tono e contenuto (come accadeva ne Il profumo delle bugie), anche perché il riferimento a Gadda non si limita alla presenza di un commissario chiamato Ingravallo.
D: L’investigatore tuo alter ego è uno psicologo, diversissimo da Bacci Pagano. Quanto di Bruno Morchio c’è in questi due personaggi e in che misura?
R: Se ti riferisci all’esperienza di vita, ai gusti e a certe idiosincrasie, molto. Come psicologo Luzi mi assomiglia, e anche Bacci porta tanti tratti della mia storia. Eppure è vero, sono due personaggi molto diversi. Questo ci rimanda al fatto che probabilmente gli esseri umani in carne e ossa sono poliedrici, multidimensionali.
D: Un elemento che manca qui è il disincanto del protagonista. Di fatto questa non è un ‘cronaca del disincanto’ alla Vázquez Montalbán (o noir del Mediterraneo), ma un giallo in cui l’ordine sovvertito dal delitto viene ristabilito dalla soluzione del caso. Eppure il momento storico si presterebbe a un’analisi politica e sociale senza illusioni. Come mai ambientare questa storia nel 1992 e non parlare, quasi, di quel 1992?
R: Volevo scrivere una storia “leggera”, più intima, in cui i grandi eventi storici (Colombiane, inchiesta di Mani Pulite) rimanessero sullo sfondo. Occuparmi prevalentemente di sentimenti privati, anche se il tema della “bolla d’amore” ha una sua rilevanza sociale. Il compito del “diventare adulti” è un grande problema dell’Italia (e forse dell’Europa) di oggi e l’amore è un pretesto per affrontarlo.
D: Ci sono un gruppo di pagine, tra la 50 e la 100, in cui fai ripeter a diversi personaggi la frase «l’odore delle bugie». Nella tua bibliografia troviamo i seguenti titoli: Il profumo delle bugie e Le cose che non ti ho detto. Menzogna e omertà sono temi ricorrenti. Come si intrecciano con la ricerca della verità, che anche qui è l’ossessione sia di Ingravallo che di Luzi, e con l’eterna dicotomia realtà/finzione che attraversa tutta la letteratura?
R: La ricerca della verità è alla base di qualunque romanzo noir che, a differenza del giallo, può fare a meno della giustizia, ma non della verità. La costruzione letteraria si fonda sul presupposto che le cose non sono come appaiono; l’imbroglio è la base della implicita critica che il noir rivolge al giallo classico: non è vero che l’investigatore ricompone uno strappo, perché spesso chi lo assume imbroglia e lo chiama a fare un lavoro sporco che cozza contro la sua morale. È quanto accade di solito a Bacci Pagano. Il tema della mistificazione è uno dei motori della narrazione perché quest’ultima ha la “pretesa” di raccontare la realtà, che è nutrita di mistificazione. E anche i nostri personaggi per muoversi e agire devono compromettersi, sporcarsi le mani. In questo ultimo romanzo mi sono occupato di una menzogna che produce follia ed è legata all’illusione di perpetuare il paradiso dell’Eden della bell’età: un tema che consentiva di scrivere un giallo quasi “classico”.
D: Il commissario Ingravallo, come segnalato nella recensione, è più un funzionario alla Maigret che un investigatore alla Carvalho. Sono cambiati i modelli in Un piede in due scarpe, oppure fa tutto parte dello stesso milieu?
R: Si tratta di un altro “genere” e quindi anche i modelli cambiano. Infatti Ingravallo è un uomo delle istituzioni (per quanto anomalo e gentile) e non un investigatore privato.
D: L’amicizia è il collante che permette a un gruppo di personaggi di vivere in una bolla, che possiamo identificare con l’espressione ‘il tempo delle mele’, la gioventù spensierata degli anni del liceo. Anche loro tengono, alla fine, un piede in due scarpe. Quali sono i rischi che si corrono a non chiudere le porte con il passato, soprattutto quando si tratta di un’intera epoca?
R: I rischi sono quelli che sta correndo il nostro Paese: diventare anagraficamente vecchio senza conoscere la maturità («Ripeness is all» scriveva Pavese in epigrafe a La luna e i falò); e gli imprenditori politici dell’odio e della paura in questa immaturità ci sguazzano.
D: Una cosa che può in parte sorprendere è la totale assenza di un giudizio morale sul tradimento. Sia tra amici che tra innamorati. Questo romanzo è ricco di tradimenti, che vengono accettati come qualcosa di inevitabile o, addirittura, rivelatrice, riparatoria. Quando il tradimento trova giustificazioni e basi morali per essere considerato giusto?
R: Il vero problema è l’ambiguità, precedente al conflitto, che caratterizza la bolla in cui vivono “gli inseparabili”; in quell’illusorio stato di grazia non esistono il bene e il male e il tradimento non è percepito come una trasgressione. Domina una sorta di inconsapevole e irresponsabile onnipotenza foriera di imminenti catastrofi.
D: Anche dal punto di vista stilistico la tua prosa è diversa da come siamo abituati. Viaggi su un altro registro. Ma, ora che ci penso, lo scarto si nota di più con i primi Bacci Pagano, come Maccaia, che non con l’ultimo, Fragili verità. È cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere?
R: Il richiamo a Gadda qui è d’obbligo ed è riferito al suo gusto per lo scambio dei registri stilistici. Si passa da un registro alto, quasi aulico (“indarno”, “sodalizio”) a una parlata popolare nutrita di
scatologia (la marchesa parla sporco per scelta) e al dialetto più popolaresco di tutti, il romanesco dell’ispettore capo Aleotti.. La scrittura in terza persona favorisce tutto questo, che risulterebbe problematico se la voce narrante fosse quella, che so, di Paolo Luzi, come accade nei romanzi di Bacci Pagano.
D: Un collega di Critica Letteraria, Stefano Crivelli, scrisse che noi genovesi soffriamo di una strana saudade: siamo nostalgici senza andarcene, rimpiangiamo una città che non esiste più. Pensi che questo sia un limite quando si tratta di pensare al futuro, di guardare avanti?
R: Credo di sì. Spesso lo facciamo anche raccontandoci delle balle. Tipo la storia del dialetto: i leghisti nostrani predicano che bisogna riportare in uso il dialetto e pensano di farlo stanziando una miseria alle scuole. Come dire che fanno solo propaganda. Perché, se davvero ci tengono (io amo il dialetto genovese) mi domando: ma perché invece che delegare la scuola , che intanto si sa che le lingue studiate a scuola non si imparano perché non si usano, non cominciano a parlare genovese con i loro figli? In realtà non lo fanno perché sanno benissimo che è una bufala. Come quella dell’invasione degli immigrati.
D: Il 27 ottobre a Genova si presenta Una finestra sul noir, antologia dedicata alla memoria di Marco Frilli, il nostro editore, un mezzo rivoluzionario per una città come Genova. Ti va di condividere un ricordo, un flash, di Marco?
R: Ricordo quando negò al Melangolo la liberatoria per inserire didascalie tratte dai miei romanzi sotto le fotografie scattate da Gianni Ansaldi e Patrizia Traverso per La Genova di Bacci Pagano. Un comportamento che suonava autolesionistico. In realtà non gli interessavano i soldi che diceva di pretendere (e che sapeva benissimo che il Melangolo non gli avrebbe mai dato) ma voleva da me un racconto lungo da inserire in un libro di racconti: fu così che nacque Bacci Pagano cerca giustizia. Credo che nel tempo il libro gli abbia fruttato più della cifra sbandierata per cedere i diritti. Perché lui questo era: un editore.
D: Chiudiamo con una domanda di rito, che in realtà sono due. A quando il prossimo Bacci? Ci possiamo aspettare una serie su Paolo Luzi o si chiude qui?
R: Direi autunno 2018 il prossimo Bacci (una storia che con la memoria riporta il detective a una delle sue prime indagini, nella seconda metà degli anni Ottanta). Quanto a Paolo Luzi, vediamo come va Un piede in due scarpe. Lasciamo decidere ai lettori.
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