Il castello Rackrent
di Maria Edgeworth
Fazi Editore, 2017
Traduzione di Pietro Meneghelli
€ 15
pp. 144
Tutto d'un fiato e con il sorriso sulle labbra: così si legge Il castello Rackrent, romanzo dei primi dell'Ottocento di Maria Edgeworth, ripubblicato da Fazi con una nuova veste grafica. È la storia di una nobile famiglia irlandese, narrata in prima persona dal «povero Thady», fedelissimo servitore di quattro generazioni di Sir.
Gli aneddoti che compongono la storia dipingono un ritratto di modi e costumi dei gentiluomini irlandesi «prima del 1783» (come l'autrice precisa in apertura di romanzo): invece di descriverli con gli occhi dello storico, Edgeworth li svela dall'interno, dando voce ai protagonisti. Ogni ricostruzione storica, avverte la scrittrice, si basa su circostanze esteriori, su un'analisi superficiale e incerta, oltre che noiosa. Per coinvolgere il lettore è preferibile scavare nei diari, nelle autobiografie, nelle «frasi lasciate a metà» scritte nel segreto della propria stanza o origliate da un onesto servitore.
Una volta che abbiamo contemplato quegli splendidi personaggi che recitano la loro parte sul grande teatro del mondo, con tutti gli effetti scenografici e le decorazioni da palcoscenico, desideriamo fervidamente di essere ammessi dietro le quinte, in modo da poter osservare più da vicino gli attori e le attrici.
A guidarci negli anfratti del castello è quindi il vecchio Thady Quirk: un servo ignorante, sottovalutato da tutti e per questo ammesso alle conversazioni private, che lui riporta in un memoriale composto «per amicizia verso la famiglia». Di questa famiglia l'ingenuo Thady racconta pregi (pochi) e vizi: anche se il linguaggio è generalmente ossequioso, il risultato è ironico e molto divertente.
Ora tutti avrebbero visto di che pasta era fatto Sir Patrick... Quando si installò nella sua proprietà, dette il più bel ricevimento di cui mai si fosse sentito parlare in tutto il paese... non ce n’era uno che riuscisse a tenersi in piedi dopo cena, se non lo stesso Sir Patrick, che poteva reggere più a lungo del miglior uomo d’Irlanda, per non dire dei tre regni.
Infatti i nostri "gentiluomini" («quell’ubriacone di Sir Patrick, quel litigioso di Sir Murtagh, quell’attaccabrighe di Sir Kit e quel trasandato di Sir Condy») di gentile hanno solo il nome, la nascita: spendaccioni oltre ogni limite, disonesti con i debitori, traditori con gli amici, finiscono per mandare in rovina la famiglia. E il castello Rackrent che illumina la copertina (una novità apprezzabilissima, al confronto con lo scialbo gentiluomo che occhieggiava dall'edizione del romanzo del 1999) è la scena di una tragedia: è il suicidio di una certa aristocrazia che disperde denaro e salute correndo dietro alle perversioni più disparate (dalle donne al gioco all'alcol), mentre un nuovo ceto più povero ma più istruito tenta il sorpasso.
(...) e le note dei commercianti che arrivavano con ogni giro di posta, lunghe e voluminose, con conti estesi quanto il mio braccio, in sospeso da anni e anni; mio figlio Jason glieli fece consegnare tutti, ma Sir Condy rifiutò di leggere le lettere di sollecito, perché detestava i problemi e non si riusciva a costringerlo a parlare di affari, e così continuava a rimandare e rimandare, dicendo «sistemate la cosa in qualche modo, o dite loro di ripassare domani, o parlatemene qualche altra volta». Ora, era difficile trovare il momento giusto per parlargliene, perché la mattina stava a letto e la sera era in compagnia della bottiglia; momenti nei quali nessun gentiluomo desidera essere disturbato.
In fondo è proprio quel castello che dà il titolo al romanzo il vero protagonista, nonché l'unico elemento che sia presentato in maniera imparziale da Thady, che attraverso piccoli dettagli (il crollo delle pietre sull'ingresso principale, il soffitto fatiscente, il teatro smantellato per avere legna da ardere) ne narra la decadenza. Il simbolo del potere - un potere basato sulla proprietà terriera, sui balzelli e gli "straordinari" riscossi insieme agli affitti, da cui il nome della fortezza "rastrella pigioni" - ha una sua parabola: prima lo sfarzo, l'abbellimento per le feste, sotto il regno di Sir Patrick; poi la ristrettezza e il risparmio, con Sir Murtagh; infine la miseria.
Ma, al di là della storia, quello che davvero rende piacevole questo libello è lo stile, l'ironia tragicomica che lo pervade, l'equilibrio tra la sfrontatezza dei personaggi e la doppiezza equivoca del narratore. Consigliato per un pomeriggio di svago.
Francesca Romana Genoviva