Prosegue la conversazione tra Nicola Campostori e Alessio Piras sulla serialità nei gialli, a partire dal nuovo romanzo di quest'ultimo, Nati in via Madre di Dio. Qui potete leggere la prima parte; qui le loro riflessioni sul noir.
(NICOLA CAMPOSTORI)
Intervistato da Repubblica, FrancescoRecami ammette che dietro molta serialità c'è anche un calcolo
pragmatico: “Funziona perché è favorita dai meccanismi di
distribuzione. Quando un romanzo va in produzione, viene presentato
ai librai attraverso una scheda in cui va indicato un cosiddetto
libro gemello. Il terrore degli editori è stampare troppo o troppo
poco. Chi sbaglia tiratura, ci rimette. Ecco che il mercato incita a
fare libri tutti uguali. Tutti libri gemelli. Uno come me, se non
scrive la serie sulla casa di ringhiera, viene guardato con sospetto,
perché non ha libri gemelli a cui appoggiarsi”. Cosa ne pensi? Nel
tuo caso che peso hanno avuto queste considerazioni?
(ALESSIO PIRAS)
Da una parte è vero che la serie
affeziona i lettori, o può affezionare i lettori, ma non è una
formula matematica certa, e l’esempio di Bastasi è lampante. Ci
sono molti editori che preferiscono pubblicare serie e che già dal
primo libro vogliono vedere le condizioni necessarie per cui possa
esistere la serialità. Ma è pur vero che il primo capitolo di una
serie non ha gemelli, ha semmai compagni di scaffale che ne
condividono il genere, l’ambientazione, ecc. Quindi, un editore
riesce sempre a trovare un libro correlato, anche perché se fa bene
il suo mestiere le collane devono avere un loro senso, un filo
conduttore che le tiene insieme. Il terrore di cui parla Recami, poi,
è frutto di una mentalità ancorata a un vecchio modello: l’editore
è un imprenditore e il suo mestiere consiste proprio nel capire
quanto e come produrre (quanti e quali libri stampare, quindi) e
quali rischi prendersi. Se non sa fare questo, allora meglio scelga
un lavoro alle dipendenze di qualcuno. Nel mio caso, se queste
considerazioni hanno avuto peso, dovremmo chiederlo a Carlo Frilli,
il mio editore.
(NC)
Sempre in quell'intervista, a
proposito della scelta di avere un protagonista non poliziotto,
Recami sostiene che alla lunga diventa ostico mantenere un
investigatore per caso (cioè un non appartenente alle forze
dell'ordine) perché risulta irrealistico il suo coinvolgimento in
numerosi delitti. Per superare questo problema, conclude, “Malvaldi
ha dovuto far fidanzare il suo barista con una poliziotta”.
In qualche modo anche tu hai fatto lo stesso, affiancando da subito a
Marino il commissario Pagani. Ti sei posto la questione? Cosa ne
pensi?
(AP)
Credo che Recami
abbia, questa volta, perfettamente ragione. Non è realistico che un
esterno alle forze dell’ordine entri tanto dentro un’indagine,
anche se la polizia suole avvalersi di consulenti esterni e un
accademico ne ha tutte le credenziali. E, del resto, Sherlock Holmes
non era un poliziotto.
La questione me la
sono posta perché non mi piace forzare troppo, piegare
eccessivamente la realtà alle mie esigenze, e sto cercando di
risolverla a mio modo.
(NC)
Come nel tuo esordio, anche qui
abbiamo una cornice che introduce il racconto: il romanzo sarebbe la
trascrizione di quanto Lorenzo ha raccontato al narratore, un
marinaio innamorato di Genova. Il prologo in effetti ci immerge
subito e in maniera vivida nella tua città, ma è comunque un
passaggio breve, non necessario a livello di intreccio. Come mai lo
hai voluto inserire, qui come nel primo romanzo? Mi sembra che dia al
libro anche una componente più letteraria, era questa la tua
intenzione? Tra l'altro più avanti giochi apertamente col lettore su
questo livello metaletterario, facendo pensare al protagonista che la
storia che gli è capitata potrebbe essere la trama di un libro dei
Fratelli Frilli (che sono, infatti, i tuoi editori).
(AP)
La
struttura a cornice, o comunque il gioco con il lettore sul
narratore, è una strategia che a me piace particolarmente. Sono un
ispanista e il testo fondativo, il Romanzo, è il Don
Quijote,
dove Cervantes non fa una cornice alla Boccaccio, ma gioca su più
livelli narrativi e a un certo punto incontra il suo cavaliere dalla
triste figura, anticipando di qualche secolo Unamuno che fa lo stesso
in Nebbia.
È vero, della cornice non se ne sentiva il bisogno, un narratore in
terza persona dà a me autore il distacco sufficiente per poter
scrivere, ma forse è proprio quella la sua essenza, la sua grazia.
Quello che tu citi è soprattutto un gioco con il mio primo lettore,
ovvero colui che legge per primo i manoscritti, Carlo Frilli. E darei
una buona parte dei miei diritti di autore per vedere la faccia che
ha fatto quando l’ha letto.
(NC)
Mi sembra che la scelta di
parlare della Resistenza, con alcuni capitoli ambientati nel 1944,
sia dovuta ad almeno due motivazioni. La prima era la volontà di
raccontare un momento fondativo della nostra nazione, del quale tu,
pur con un occhio disincantato e il meno ideologico possibile,
riconosci i valori; dall'altra, e forse è questa una spinta ancora
più importante, la Resistenza può essere vista come un periodo
storico in cui sono più evidenti i conflitti che da sempre lacerano
l'uomo: quello tra istinto e razionalità, tra Ideale e pragmatismo,
tra individualismo e senso della collettività. Ad un certo punto
scrivi: “Giustizia e verità non sempre, anzi quasi mai,
coincidono”, che secondo me è il riassunto perfetto del tuo punto
di vista su cosa significa noir. In Nati
in Via Madre di Dio,
ancora una volta, la
Giustizia non è un affare semplice per il singolo che cerca di
vivere la sua vita come meglio può e ritiene.
(AP)
Ho
studiato a fondo un conflitto, una guerra, la Guerra Civile Spagnola,
che è stata innanzitutto una guerra di Caino contro Abele. In quel
conflitto sono state lacerate famiglie e amicizie, i rapporti umani
sono stati messi a dura prova fino alle conseguenze estreme.
Studiando quella guerra, ho iniziato a interessarmi ai conflitti
bellici in generale e alle ricadute che eventi storici di tale
portata drammatica hanno avuto sulle vite dei singoli. In Spagna c’è
un’abbondante letteratura al riguardo. La Resistenza è stato
quindi uno dei passaggi obbligati e ho cercato di affrontarla
mettendo in pratica ciò che avevo imparato sui libri: libero da
ideologie, ma consapevole che vi era chi era nel giusto e chi no, che
dall’altra parte del fiume c’era la Germania di Hitler. Forse
Nati in via Madre
di Dio
rappresenta un bel punto d’incontro tra il mio lavoro di
ricercatore e quello di scrittore.
I
concetti di Giustizia e Verità differiscono: fare giustizia non
significa necessariamente scoprire la verità, né essere giusti tra
l’altro. Nel noir è normale che chi indaga sia più idealista che
pragmatico e insegua la verità, più che la giustizia, quasi a volte
come vezzo personale. In Nati
in via Madre di Dio
ho cercato di andare un po’ più in là e spero di avere spiazzato
più di un lettore.
(NC)
Tornando ai tuoi temi ricorrenti:
subito all'inizio del libro c'è una discussione culinaria sul
condimento giusto per gli gnocchi; il cibo e la cucina sono davvero
il “piatto forte” delle tue storie, che esaltano la convivialità
del mangiare assieme; preparare e poi gustare uno dei tanti piatti
offerti dal Mediterraneo è un modo genuino, forse il più intimo, di
condivisione e socialità; in tutto questo gioca un ruolo centrale
l'amicizia, che mi sembra essere un’altra colonna portante della
tua poetica.
Viene poi affrontata nuovamente,
seppure in maniera più marginale, la situazione dell'università
italiana (col ritorno del ricercatore Niccolò Canepa, uno dei pochi
che lotta per svecchiare l'accademia e superare le baronie).
(AP)
La
gastronomia è un elemento fondamentale della nostra esistenza. In un
piatto, in una ricetta, non vi sono solo degli ingredienti, ma vi
sono intere pagine di storia: dalle migrazioni ai grandi viaggi, fino
perfino ai conflitti bellici che hanno disegnato il mondo di oggi.
Antonio Melis, mio professore di Letterature Ispanoamericane a Siena,
diceva sempre: “mi chiedo cosa mangiassero gli europei prima dei
viaggi di Colombo, che erano senza pomodori, patate, peperoncino e un
sacco d’altre cose”. In Millennio,
Manuel Vázquez Montalbán fa transitare Pepe Carvalho da Gerusalemme
e gli fa mangiare delle melanzane secondo una ricetta simile al
mussaka,
che poi non è altro che una parmigiana con il ragù al posto del
parmigiano. Ecco a un certo punto Carvalho dice al suo assistente e
cuoco, Biscuter, che le melanzane (come i carciofi, le olive e l’uva)
sono il denominatore comune del Mediterraneo. Non sono, quindi, una
semplice verdura. Se siamo quello che mangiamo, allora tra chi è
nato sulla sponda nord e chi è nato sulla sponda sud di questo mare
chiuso non vi è molta differenza.
Sulla situazione
dell’università italiana ho insistito molto nel primo romanzo e in
questo sarebbe stato fuori luogo proseguire. Ma Lorenzo è un
accademico e quindi l’università è il suo luogo di lavoro, per
cui bisogna accennarvi, pur non enfatizzando. L’università
italiana versa, e lo dico con tristezza, in condizioni pessime dalle
quali non so francamente se potrà riprendersi. Si tratta di un
sistema molto indietro rispetto agli altri suoi concorrenti, che non
si basa sul merito, con meccanismi oscuri e incapace di attrarre
talenti da fuori l’Italia. È frutto, comunque, di una mentalità
in generale arretrata, basti guardare a cosa è successo con le
nomine di professionisti stranieri alla testa di musei nazionali. Ci
sono certo delle eccezioni e nei Dipartimenti ho visto lavorare
persone eccezionali, ma c’è una cosa che mi ha sempre lasciato
l’amaro in bocca: chi ha un codice etico preciso in Italia, chi non
si piega a logiche baronali e nepotistiche viene isolato, lasciato
solo e non può ‘fare scuola’. In questo modo il suo lavoro, il
suo metodo, in quel Dipartimento a cui ha dedicato decenni della sua
vita sparisce con lui e viene portato avanti in qualche altra parte
del globo dai suoi studenti che sono dovuti emigrare per poter
lavorare.
(NC)
Visto il carattere fortemente
autobiografico del libro (che è tra l'altro dedicato a tuo nonno
Renato, “ragazzo in via
Madre di Dio”),
mi è venuto da pensare che anche il tema del passato, che percorre
tutto il romanzo e che nel finale è fortemente esplicito, derivi da
un'istanza personale: scrivendo questo secondo volume sentivi la
necessità di fare i conti con vicende rimaste in sospeso? Di mettere
in qualche modo il punto?
(AP)
Non ho mai avuto
conti in sospeso con Genova, nonostante me ne sia andato. L’accetto
per quella che è, come si fa con una madre o un padre e forse starne
lontano me ne nasconde i difetti impedendomi di odiarla. Sono
semplicemente uno che con la Storia ci ha lavorato, anche se
marginalmente e in riferimento alla letteratura, e ritengo lo sguardo
al passato l’unico modo per non perdere la rotta; capire chi e cosa
eravamo, singolarmente e come gruppo, è indispensabile per decidere
dove andare. Il passato non muta, mentre il presente è in divenire e
il futuro è nelle nostre mani. E qui sta la chiave di tutto, anche
se spesso lo dimentichiamo. L’unica questione personale, forse, è
legata alla morte di mio nonno, che in via Madre di Dio ci è nato.
Per quanto messa in conto da una lunga malattia, il suo decesso ha
lasciato un vuoto riempito in parte da questo romanzo.
(NC)
Una cosa che ho notato e che mi sembra
molto frequente anche in altri autori è che in mezzo ad
un'evocazione così potente della città, ad una volontà di inserire
atmosfere, riflessioni sulla vita e sulla società, manie e tic dei
personaggi, il delitto affrontato passa quasi in secondo piano. Da
lettore, le indagini e la scoperta del colpevole sono meno
interessanti rispetto a tutto il resto, che invece è estremamente
affascinante. Cosa ne pensi? La vivi come una critica o invece è
solo la constatazione che in questo genere di romanzi la detection ha
un peso minore?
(AP)
Non la vivo come
una critica per una semplice ragione: è la verità. Il delitto e
l’indagine non sono il cuore del romanzo, ma sono il mezzo
attraverso il quale costruisco la vicenda per dire ciò che desidero.
Per questo, tra l’altro, non sono totalmente d’accordo sul fatto
che la detection abbia un peso minore: l’indagine poliziesca si
trasforma in realtà in un’indagine della realtà che circonda
l’investigatore. Sia Pagani che Lorenzo riflettono molto sulla
condizione di senza tetto, per esempio, o sul tema della colpa, sulla
distanza tra giustizia e verità e sulla mala gestione del tessuto
urbano. Se nel XIX secolo l’indagine riportava l’ordine, oggi
scoperchia e rende manifesto il disordine, evidenziando, tra l’altro,
la totale impotenza degli investigatori (gli eroi) di fronte ad esso.
(NC)
Una curiosità “turistica”: esiste
davvero la colonna infame che ricorda lo scempio degli speculatori
che hanno cancellato interi quartieri del centro storico marinaro?
(AP)
Esiste eccome! Si
trova nei pressi della chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, vicino
a Piazza Sarzano. Questa colonna infame, però, si rifa a un’altra
colonna vicino a via del Campo, in Piazza Vacchero, eretta nel 1628 e
che ricorda la congiura di Giulio Cesare Vacchero contro la
Repubblica di Genova per favorire i Savoia. La famiglia Vacchero si
vergognava a tal punto di questo suo membro, giustiziato lo stesso
anno in cui si eresse la colonna, che ottenne nel 1644 il permesso di
costruire a sue spese una fontana che coprisse l’onta scolpita su
marmo. Di fatto ancora oggi bisogna aggirare la fontana per poterla
vedere.
(NC)
Un'ultima, inevitabile domanda: hai
accennato ad un terzo romanzo, quando avremo modo di incontrare
ancora Marino e Pagani?
(AP)
Purtroppo i miei tempi di scrittura
dipendono anche dagli impegni lavorativi, sempre più pressanti.
Spero che la terza indagine della coppia si riesca a pubblicare
durante il 2018, al più tardi l’inizio del 2019. Nel frattempo,
però, a ottobre uscirà un mio racconto sull’antologia che la
Frilli Editore dedicherà a Marco Frilli, il patron della casa. Non
saranno Pagani e Marino a indagare, ma...
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