di Mathieu Menegaux
Bompiani, 2017
138 pp.
€ 15,00
Si legge spesso che un buon libro è caratterizzato da un elemento fondamentale: saper prendere i sentimenti e le emozioni del lettore e farli a brandelli, ridurli in pezzettini per poi rimontarli a piacere. Il romanzo che funziona è quello che fa dimenticare di essere comodamente seduti sul divano, in mezzo alla gente sull'autobus o fra i fumi tossici delle strade cittadine, e trascina con sé nel vortice di peregrinazioni dei protagonisti. Si soffre insieme a loro e si è felici insieme a loro; si ama e si odia con loro, li si ama e li si odia.
Questo è il caso di Ho taciuto, l'incredibile esordio di Mathieu Menegaux. Una penna già matura salvo qualche incertezza, una penna che sa sfondare ogni resistenza e spingere le nostre convinzioni sul bene e sul male oltre ciò che già crediamo di sapere. La storia che ci racconta è riassunta alla perfezione dalla copertina che Bompiani ha scelto, dimostrando grande acume: sullo sfondo nerissimo della Parigi più cupa si staglia la vita di una donna a pezzi e senza volto, la cui identità si fa grigia a causa dello stupro che subisce a inizio storia. In mezzo scorre il sangue di un'esistenza senza più certezze, sbiadito come la scritta che compone il nome dell'autore. E quel bianco del titolo? Quel bianco io lo vedo come la purezza di una creatura innocente che si viene a trovare, suo malgrado, gettata nell'esistenza: senza colpe, senza parola, senza possibilità di replica.
Non c'è via di fuga. Ho taciuto porta in scena una vita quotidiana, un evento che può capitare a chiunque, ma così devastante nelle sue conseguenze a breve e lungo termine da far perdere i riferimenti. Quei riferimenti che spesso vengono dettati dalla religione, qui assente nel confortare un'esistenza alla deriva a causa dell'ateismo della protagonista, una donna borghese della sinistra parigina. Una donna che fino all'evento scatenante ha ben chiaro dove la sua vita sta andando: il matrimonio con l'uomo che ama, il lavoro che è anche passione e dunque non pesa; le amicizie e gli affetti, i progetti futuri. Ma Claire è anche una donna che ha sempre saputo affrontare le difficoltà: dall'aborto a sedici anni, frutto di una scelta consapevole e precisa, alla vita senza genitori, a quarant'anni è una persona completa a cui manca un solo piccolo tassello: un figlio tanto bramato, creatura che in una vita senza confini diventa elemento teleologico, un "perché" a cui tendere.
A quarant'anni, senza figli, bisogna fare la scommessa di credere in Dio se si aspira alla vita eterna. E se, come me, non ci si può decidere a crederci, in quel Dio, se si persiste a pensare che il cielo è disperatamente vuoto, l'assenza di un figlio a quarant'anni vi ossessiona.
È il senso della vita al centro di questo romanzo. La vita che senso non ha perché non c'è Dio a darglielo, come nella migliore tradizione post moderna e nichilista. La vita che il senso non lo aspetta ma lo costruisce, lo genera, lo fonda sulla base delle proprie convinzioni, spesso salde come una montagna ma in grado di sgretolarsi davanti alle tragedie. E lo stupro è una delle tragedie peggiori, una calamità in grado di annientare di colpo la forza di una donna che ha sempre creduto di poter gestire il proprio destino da sola, di poter portare avanti le cose senza parlare, senza dire, senza confessarsi. Tacendo, appunto. Claire tace per tutto il romanzo, fino alla fine, mai manifestando il perché delle proprie intenzioni. Tace perché non vuole la compassione del mondo, tace perché non vuole avere su di sé gli occhi di chi la guarderebbe non più come un essere umano ma come una vittima. Una femmina debole.
E fino alla fine, sebbene Claire sia più carnefice che vittima nonostante lo stupro, l'autore è così fenomenale nell'entrare nella psicologia della sua protagonista che ci è impossibile non empatizzare. Mentre prosegue nella discesa degli abissi dell'umanità, e noi con lei, mai una volta ci ritroviamo a poter condannare le sue scelte. Decisioni sbagliate, sì; orribili, certo: ma non condannabili. Perché questa donna fragile è umana, troppo umana, per non essere simile a noi.
Questi sono gli ingredienti dell'intenso esordio di Menegaux, che porta al mondo una storia che è un tunnel senza uscita, una notte senza luna, una sensazione continua di soffocamento emotivo.
Sono queste le storie che insegnano qualcosa. Questa storia ci insegna che da soli rischiamo sempre di perderci e che l'ultima cosa da fare nelle difficoltà è tacere.
David Valentini